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Videogiochi, rischio dipendenza

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Non ci sarebbe un fine terroristico dietro la sparatoria di Jacksonville, Florida, nella quale hanno trovato la morte 3 persone. E nemmeno un movente familiare o riconducibile a qualsiasi tipo di disagio sociale. Niente di tutto questo, almeno secondo gli inquirenti: alla base del folle gesto dell'assalitore 24enne ci sarebbe una sconfitta, l'eliminazione da un torneo di videogiochi, il Madden Nfl Classic, organizzato nel retro di un bar situato nel complesso di negozi e ristoranti di Jacksonville Landing. Un luogo di ritrovo per la cittadinanza, frequentato da ragazzi di tutte le età, famiglie e chiunque abbia voglia di trascorrere una serata fra le luci al neon della city. Tutto avviene in pochi secondi al Glhf Game Bar, noto locale sede delle eliminatorie di un gaming di football americano che, per i vincitori, avrebbe previsto un ulteriore step a San Diego. Un torneo al quale l'aggressore si era recato armato e che, dopo il game over, si è trasformato nel suo poligono di tiro: in tre sono rimasti colpiti e uccisi, altri 11 hanno riportato ferite. Anche lui è stato ucciso, raggiunto da un proiettile della Polizia per fermarne la folle rabbia post-sconfitta, sventando quella che stava per diventare l'ennesima strage con armi da fuoco delle cronache americane.

Il dossier

E' probabile che, proseguendo con l'indagine, gli inquirenti giungeranno a conclusioni ben più articolate della semplice rabbia come movente dell'aggressione del 24enne. Il punto è che, mai come in questo caso, la scintilla scatenante risulta degna di attenzione quanto le eventuali condizioni umane che emergeranno durante il lavoro di magistrati e procure: uccidere per un videogioco, o meglio per una sconfitta al termine di una partita, resta un punto focale della questione, parallelo alla tragicamente ripetuta polemica sulla troppa accessibilità alle armi da fuoco. Da un lato perché il ragazzo ha portato con sé un'arma, mettendo poi in atto il suo tragico “sparatutto”, dall'altro perché la semplice frustrazione per il k.o. è stata sufficiente a scatenare una furia omicida, evidenziando un disagio al limite della morbosità. Un'ipotesi forse nemmeno troppo avventurosa considerando che, non più tardi di qualche mese fa, l'Organizzazione mondiale della sanità aveva inserito i videogiochi fra le dipendenze con possibilità di divenire patologia. Un inserimento non casuale in quanto, stando al dossier International Compendium of Diseases, sono sempre più frequenti i casi in cui l'individuo sviluppa una forte forma di dipendenza in grado di generare comportamenti compulsivi e, in alcuni casi, incontrollabili, esattamente alla stregua di uno stupefacente. E, per questo, è sempre più caldeggiata la richiesta di creazione, come per le droghe e le ludopatie, di centri specifici di “disintossicazione” da videogioco.

Sintomi e conseguenze

Una dipendenza verso uno o più videogame (più elevate man mano che le case produttrici sviluppano giochi più sofisticati e a più livelli di interazione uomo-macchina), stando allo studio dell'Oms può svilupparsi secondo i classici percorsi che portano a quelle da stupefacenti, primo fra tutti l'eccessivo consumo, nel caso specifico le “troppe ore” trascorse davanti al monitor. E le conseguenze sono più o meno le stesse: astinenza, alienazione dalla società e dal contesto domestico su tutte. Va considerato che, attraverso i collegamenti con il web, anche attraverso i videogiochi gli utenti hanno la possibilità di interagire fra loro, giocare online e confrontarsi costantemente, con l'obiettivo di migliorare via via il proprio personaggio e sconfiggere l'avversario. Il che richiede tempo e genera reazioni emotive che, in molti casi, assumono i connotati di vere e proprie autogratificazioni o, al contrario, atteggiamenti di frustrazione e forte autocritica nel caso di risultati negativi.

La questione loot box

L'Oms parla di “gaming disorder”, la tendenza a concedere priorità al videogame rispetto a qualsiasi altra attività giornaliera comprese, a volte, le necessità primarie come mangiare e dormire. Caratteristiche ritenute di gravità sufficienti “a causare una compromissione significativa in ambito personale, familiare, sociale, educativo, professionale o di altro tipo”. E non è necessario che si tratti di giochi con trame articolate, anche se la tendenza a dedicare più attenzione e tempo a queste di tipologie di game è fisiologicamente più frequente, anche per la logica delle cosiddette loot box – le scatole premio per il potenziamento progressivo dei personaggi – adottata da molte case di produzione per accrescere l'interazione dell'utente.

Non è ancora stato in nessun modo stabilito che il caso di Jacksonville possa inserirsi nell'ambito, ancora in fase di studio, delle dipendenze da videogioco o se la reazione del 24enne autore del triplice omicidio possa essere in qualche modo frutto di una frustrazione post-sconfitta. Di certo però, lo studio dell'Oms ha aperto un'ulteriore porta per la comprensione dei rischi connessi a un mondo, quello dei videogame, in continuo sviluppo e sempre più alla portata di giovani in ogni fascia d'età. Riflettori che, per forza di cose, vengono puntati anche sulla capacità d'influenza dei videogiochi (specie di quelli considerati violenti) e su quelle logiche di mercato che spingono le case di produzione, pur a conoscenza dei possibili rischi di “videogamepatia”, allo sviluppo di software comprensivi delle loot box sulle quali, ormai da diverso tempo, è in corso un acceso dibattito fra chi le inquadra con possibili richiami al gioco d'azzardo (anche se tali sistemi non rientrano legalmente in tale categoria, come precisato in un'inchiesta del 'Guardian') e chi ne sostiene l'eccessivo fascino esercitato sui più giovani, con scarse regolamentazioni che mettano in guardia sui rischi e sulla necessità di progressivi acquisti presso gli store online via via più esosi.

Ora, con la classificazione come patologia nell'Icd-11 impiegata dall'Oms per inquadrare la dipendenza da videogiochi, va da sè che anche la medicina dovrà quantomeno analizzare questo campo e fornire, per quanto possibile, risposte alla richiesta-proposta di apertura di centri specifici per la cura. Una logica perlopiù avversata dalle case produttrici, le quali sostengono che solo una percentuale minima di utenti rientrebbe nella categoria patalogica dei videogame-dipendenti. Una sfida che, è proprio il caso di dirlo, sarà tutta da giocare.

Damiano Mattana: