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“Vi racconto la vita a bordo della Sea Watch”

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Diciannove giorni in purgatorio, attendendo un cenno dal paradiso. Da quell'Europa di cui avevano solo sentito parlare, magari nelle scarne cronache sportive giunte in un sperduto villaggio africano, dove il cibo non basta ma gli dei del calcio sono conosciuti e venerati. Un'oasi di benessere, una Terra promessa – così la percepivano – da raggiungere attraverso la lunga odissea che dal deserto si allunga sino alle acque del Mediterraneo, passando per l'inferno dei lager libici. E lì, sul mare – cimitero di centinaia di loro simili partiti con le stesse aspettative e mai arrivati a terra – i migranti della Sea Watch hanno atteso. Chiedendosi per quale motivo le porte dell'Eden non si spalancassero. Ancora una volta Roma (intesa come metafora del potere e non come capitale di un Paese) discuteva mentre Sagunto attendeva la fine dell'incubo, arrivata con l'ok di Malta allo sbarco, frutto dell'accordo europeo per la ripartizione di un carico umano portato in dote anche dalla Sea Eye, altra nave della stessa ong tedesca. Tra gli otto giornalisti autorizzati a salire a bordo della Sea Watch, per riportare la vicenda umana dei migranti salvati dalle onde e dagli scafisti, c'era anche Angela Caponnetto, di Rainews24. In Terris l'ha contattata per farsi raccontare quei giorni di lavoro tra gli ultimi degli ultimi. 

Che esperienza hai vissuto, umanamente e professionalmente?
“E' difficile scindere le due cose. Ti trovi a raccontare storie di vite umana che noi, nella nostra condizione di privilegiati, non possiamo comprendere. Le esperienze in mare ti uniscono in un microcosmo, quello del Mediterraneo, nel quale non puoi fare altro se non tendere la mano a chi si trova da giorni in balìa delle onde. E' un'esperienza che ti cambia”.

Come?
“Vedere tante persone tutti insieme, provenienti da ogni angolo della Terra, ascoltare le loro storie, ti fa capire quanto sia necessario che il giornalista racconti queste vicende in modo obiettivo, senza lasciarsi trascinare dalle beghe politiche o dalla pancia ma, nel contempo, facendosi coinvolgere dai diritti fondamentali dell'uomo. Comprendi che quello dei migranti è un mondo in movimento, sfruttato in modo spietato dai trafficanti di esseri umani”. 

A bordo che situazione hai trovato?
“Hai a che fare con persone che, per la maggior parte, non conoscono il mare. Non capiscono per quale motivo si trovino ancora tra le onde, a bordo di quella che, dal loro punto di vista, è un arca di Noè che li porterà in salvo. Ma soprattutto vedi i bambini, che non comprendono quanto stia avvenendo: da una parte vivono tutto come un grande gioco, un po' come il figlio di Benigni ne 'La vita è bella' e dall'altra sono traumatizzati. Occhi di bimbi che prima sorridono e poi si abbassano tristemente. Voglio precisare una cosa…”

Prego… 
“Sulla nave non stanno male perché non mangiano, ma perché vedono la terra e gli viene detto che non si può sbarcare. E' soprattutto un problema psicologico”. 

Cosa ti dicevano della lunga attesa, come l'hanno vissuta?
“In un primo momento erano contenti per essere stati salvati e, soprattutto, per essere lontani dalla Libia. Ci hanno mostrato le ferite subite, non solo gli adulti ma anche ragazzini di 16 anni. Ci dicevano: 'ci hanno trattato come cani' e poi chiedevano: 'perché non ci fanno entrare in Europa? Ci considerano animali?'. La parola che utilizzavano più spesso per descrivere la loro condizione era 'prigionieri'”. 

Quindi i migranti erano informati dallo staff della ong sulle polemiche e le trattative a livello europeo?
“Sì. Venivano fatti dei briefing durante cui veniva riferito che a livello europeo si stava discutendo perché non tutti i Paesi volevano accoglierli. Del resto è impensabile che i migranti a bordo non vengano informati dei motivi per i quali l'attesa si sta prolungando”. 

C'è una vicenda particolare a cui hai assistito?
“Quella di un bambino di 11 mesi che muoveva i primi passi. Loro erano a poppa, noi giornalisti sul ponte di comando, quindi lo abbiamo visto dall'alto. Un giovane che lo stava aiutando ci ha detto: 'Ha imparato a camminare qui'. Penso ancora all'immagine di quel bimbo che inizia a deambulare su una nave mossa dalle onde mentre all'orizzonte, a Malta, si sta decidendo cosa fare di lui e di tutti gli altri”. 

La notizia dello sblocco dello stallo com'è stata accolta?
“Con un urlo liberatorio. Saltavano, si abbracciavano fra loro e con i membri dell'equipaggio. Mi hai ricordato un'altra vicenda simile, quella dell'Aquarius del dicembre 2017, quando al momento dell'annuncio gli uomini urlavano di gioia e le donne hanno intonato un canto africano. Per loro era la fine di un incubo, pur sapendo che da lì in avanti avrebbero incontrato altri problemi”.

Dunque erano consapevoli di quanto sarà lungo e complicato il processo di inserimento e integrazione nei Paesi di destinazione…
“Alcuni sì, altri meno. Dobbiamo pensare che in certi casi quando sbarcano non sanno nemmeno dove si trovano: bisogna mostrargli la carta geografica per farglielo capire. Molti di questi migranti provengono da villaggi africani sperduti e hanno un'immagine falsata, edulcorata, dell'Europa. Non si rendono conto che la realtà è completamente diversa. Per cui è importante che vengano seguiti anche dopo aver toccato terra”. 

Prediligono una destinazione piuttosto che un'altra?
“Quasi tutti vogliono andare in Nord Europa, in particolare i nordafricani ed eritrei. I Paesi che preferiscono sono Germania, Norvegia e Danimarca. Pochissimi vogliono restare in Italia, anche spesso sono costretti a rimanerci”. 

Queste scelte sono dettate da motivi familiari o per preoccupazioni legate alle politiche di accoglienza?
“Eritrei, siriani ed egiziani hanno già parenti in Nord Europa. La maggior parte dei migranti, in ogni caso, vuole andare via dall'Italia, perché pensano che per loro non ci sia futuro nel nostro Paese”. 
 

Le ong, negli ultimi mesi, sono state al centro di numerose polemiche. Tu, in base alla tua esperienza su diverse navi umanitarie, che idea ti sei fatta?
“Dobbiamo essere obiettivi. Se da un punto di vista legale o giudiziario uscirà fuori qualcosa che porti a un'eventuale condanna, io, come cronista, avrò il dovere di raccontarlo. Sinora tutto questo non è avvenuto, per cui non posso aggiungere altro. Posso solo dire che quanti operano a bordo si dedicano completamente alle vite umane. Parliamo di ragazzi, di universitari che, magari, invece di farsi le vacanze in un resort salgono su una nave umanitaria dove lavorano e faticano tantissimo. E se provengono da famiglie benestanti dico: ben venga. Significa che stanno facendo qualcosa per gli altri”. 

Luca La Mantia: