La Corte costituzionale frena sull'equiparazione delle unioni civili al matrimonio. Una coppia di uomini aveva scelto un cognome comune, a margine della celebrazione era stato annotato sugli atti di nascita e i documenti, ma poi cancellato d'ufficio. La legge Cirinnà del maggio 2016 sulle unioni civili, infatti, prevedeva soltanto la possibilità di prendere il doppio cognome, non di adottarne uno per la coppia, come avviene invece nel caso del matrimonio.
La sentenza
Ora il caso della coppia è giunto fino alla Consulta, che ha definito “legittima” la disposizione dell'articolo 3 del D.lgs. n. 5 del 2017, là dove prevede che “la scelta del 'cognome comune' non modifica la scheda anagrafica individuale, nella quale rimane il cognome precedente alla costituzione dell'unione. Resta fermo che la scelta effettuata viene invece iscritta negli atti dello stato civile, ai sensi dell'articolo 63, primo comma, lettera g-sexies, del Dpr n. 396 del 2000″.
La polemica
Nelle scorse ore la vicenda aveva suscitato polemiche. Il circuito legale che fa capo ad alcune sigle lgbt, “non vuole solo dare il cognome comune alle coppie gay ma arrivare ai bambini riconosciuti legalmente come figli” è l’accusa del presidente di Pro Vita Onlus, Antonio Brandi, e di quello di Generazione Famiglia, Jacopo Coghe (associazioni organizzatrici del Family Day). I due presidenti sottolineano le vere intenzioni che “animano questa rete di avvocati, che svolge la propria attività in ambito di trascrizione dei matrimoni celebrati all’estero, riconoscimento della stepchild adoption e di bambini comprati all’estero tramite l’abominevole pratica dell’utero in affitto”. Per Brandi e Coghe “un cognome comune significa matrimonio. Le unioni civili non sono un matrimonio, che è fondato costituzionalmente sulla famiglia naturale”.