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La storia del centro di Bogovadja, un asilo sulla rotta balcanica

La testimonianza a Interris.it di Radoslav Ljubicic, direttore della Caritas parrocchiale di Valejevo, che ha diretto il centro di asilo di Bogovadja in Serbia

Per molti anni il centro di asilo di Bogovadja, in Serbia è stato uno dei più frequentati. Si trovava infatti lungo la rotta balcanica e rappresentava dunque una tappa di passaggio, quasi obbligatoria, per tutti coloro che erano in fuga al Medio Oriente. Lo scorso aprile, il governo serbo ha deciso di chiuderlo, in quanto la rotta è meno frequentata, ma quel luogo racconta ancora la storia dei tanti profughi e dei tanti giovani volontari, anche italiani, che si sono messi al servizio per dare il proprio prezioso contributo.

La rotta balcanica

Si tratta di una via migratoria percorsa da migranti e richiedenti asilo, in cerca di libertà, di diritti e di condizioni di vita migliori da quelle avute fino a quel momento. Questa rotta è iniziata ad essere percorsa nel 2012, ma solo nel biennio 2015-2016 ha registrato un vertiginoso passaggio, causato dall’aumento dei conflitti armati in Medio Oriente, specialmente in Siria e dalla violenza e dalla povertà sempre più diffusa nel continente africano.

L’intervista

Interris.it ha intervistato Radoslav Ljubicic, direttore della Caritas parrocchiale di Valejevo, in Serbia, che ha diretto il centro di asilo di Bogovadja, di proprietà della Croce Rossa. Radoslav racconta la sua esperienza e l’importanza che questo campo ha avuto per le tante persone che ci hanno soggiornato.

Radoslav, chi erano gli ospiti?

“In un primo momento erano famiglie numerose provenienti da tutto il Medio Oriente, poi successivamente single rifugiati e infine minori non accompagnati. Si trattava di persone molto diverse tra loro, per lingua e cultura e per questo la difficoltà maggiore era la convivenza. Molti di loro non sapevano nemmeno quale fosse la destinazione finale del loro viaggio, ma erano partiti dalla propria terra esclusivamente con tanta voglia di acquisire la libertà e i diritti umani che ognuno di noi deve avere”.

Come ha risposto la comunità locale a questo centro?

“All’inizio non bene, tanto che sono state organizzate anche alcune proteste che ne chiedevano la chiusura. In quel periodo il centro era sovraffollato, tanto che alcuni rifugiati sono stati ospitati in strutture vicine, mentre altri tra di loro si erano accampati nei boschi. Questa situazione è cambiata solo con la chiusura delle frontiere dell’Unione Europea, quando il centro diventò un centro destinato a famiglie con bambini e di conseguenza il numero delle persone ospitate si abbasso a un massimo di duecento. Da quel momento l’atteggiamento della stessa comunità locale cambiò molto e diventò più comprensiva e aperta all’accoglienza”.

Che tipo di attività svolgevate con gli ospiti?

“Il nostro compito primario era quello di avviare un dialogo interculturale tra i migranti e aumentare il livello di tolleranza, l’inclusione sociale, l’interazione reciproca e rafforzare con un programma di educazione le loro competenze e capacità personali. Inoltre, è stato attivato un programma di sostegno psicologico per superare i traumi che queste persone hanno vissuto prima e durante l’arrivo in Serbia. Per rendere il soggiorno più piacevole non mancavano poi dei momenti ricreativi, come il corso di musica e di scacchi, il corso di lingua inglese e lingua italiana e abbiamo creato un social caffè, ovvero uno spazio dove gli ospiti potessero vivere un momento di incontro e di condivisione ”.

Questo centro ha visto il passaggio di molti volontari. Chi erano?

“Nel corso degli anni, durante il periodo estivo, abbiamo aperto le porte del centro a molti volontari provenienti da diversi Paesi. In particolare, grazie alla Caritas Ambrosiana, alla Caritas di Treviso, all’organizzazione IPSIA ACLI e al servizio civile della Caritas Italiana negli anni sono arrivati molti giovani italiani che ci hanno fornito una grossa mano nelle attività del centro”.

Cosa ha voluto dire per questi ragazzi vivere un’esperienza del genere?

“Si tratta di un’avventura molto forte che ognuno di loro ha vissuto a modo proprio a seconda anche del proprio carattere. Molti di loro sono tornati in Italia cambiati e hanno capito di avere una missione da seguire. A Bogovadja potevano sperimentare il servizio, la condivisione, la fatica, ma anche il senso dell’amicizia vera. Per un giovane, venire a contatto con altre persone più sfortunate, ma che sono alla ricerca di una vita migliore, è un forte input a continuare a rincorrere la vera essenza della nostra esistenza”.

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