Salute: un diritto, ma non per tutti

Morrone - Kurdistan

A sinistra il prof. Morrone con i colleghi dell'Università di Sulimanyah in Kurdistan

Da oltre quarant’anni l’Istituto San Gallicano (IRCCS), in collaborazione con l’Istituto Internazionale di Scienze Medico-Antropologiche e Sociali (IISMAS), è attivo in alcune realtà povere del pianeta, e ha contribuito a numerosi accordi, studi clinici e progetti scientifici in Paesi come il Kurdistan siriano, turco e iracheno, l’Uzbekistan, l’Etiopia, il Libano, l’Egitto e molti altri.

L’intervista

L’intenzione è quella di continuare su questa direzione e se ne parlerà oggi presso la Regione Lazio. L’incontro dal titolo “La cooperazione sanitaria nel mondo: l’impegno della Regione Lazio per lo sviluppo clinico-scientifico in Kurdistan” sarà moderato dal Presidente IISMAS, il prof. Aldo Morrone, che Interris.it ha intervistato. 

Professor Morrone, qual è il fine di questi progetti?

“Quando abbiamo iniziato eravamo mossi dalla volontà di garantire una migliore preparazione in loco agli studenti universitari e di fornire più competenze ai colleghi in ambito di clinica trial e di ricerche sulle principali malattie cutanee, infettive e oncologiche. Siamo convinti infatti che se la formazione si perfeziona, a sua volta anche la salute delle persone migliora”.

Fino ad oggi che cosa è stato fatto in Kurdistan?

“Il miglioramento delle condizioni di salute dei cittadini di questo Paese è stato condotto attraverso la condivisione delle conoscenze, delle esperienze cliniche e la formazione degli operatori sanitari locali, che operano in stretta collaborazione con il personale medico italiano. Abbiamo attivato degli scambi e alcuni medici curdi vengono in Italia, e alcuni dei nostri concittadini si recano in Kurdistan. L’attività di cooperazione ha permesso di intervenire anche in aree rurali remote dove solitamente le condizioni di vita sono più precarie perché è meno facile raggiungere le strutture sanitarie”. 

Questo processo condiziona il fenomeno immigratorio?

“Certamente perché solitamente queste persone scappano dai loro Paesi spinti dalla volontà di trovare un futuro migliore. Noi invece da anni portiamo avanti l’idea che abbiamo il dovere di permettere alle persone di poter vivere e crescere i loro figli nella propria terra con i propri cari. Per farlo è fondamentale creare le opportunità di rimanere in patria e uno dei modi è fornire la possibilità di formarsi e successivamente di avere uno sbocco lavorativo. Con grande soddisfazione ci stiamo riuscendo e stiamo dando un futuro anche alle donne che in alcune di queste realtà sono spesso tagliate fuori dall’ambito socio economico perché considerate non all’altezza”. 

La salute è un diritto per tutti?

“Lo dovrebbe essere ma purtroppo non è così. Il rischio della diffusione di malattie apparentemente presenti solo in alcune aree geografiche, in particolare nelle regioni tropicali dei Paesi in via di Sviluppo (PVS), ha reso necessaria una visione più ampia nella tutela della salute. Per questo motivo oggi nei documenti ufficiali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si parla di determinanti sociali della salute, salute planetaria e one health, cioè la difesa del benessere pubblico in tutte le sue forme. Questo punto ci deve far capire che ognuno di noi ha il compito di garantire con le proprie azioni la salute e la cura di ogni essere vivente ”.

Come mai non è un diritto per tutti?

“Perché la salute in alcuni ambienti è considerata una merce e per cui è a disposizione solo di chi ha una possibilità socio-economica di un certo tipo. Questo fenomeno accade perché accanto alla salute c’è il costoso mercato dei farmaci e degli ausili sanitari e i Paesi che non possono permetterseli sono tagliati fuori. Questo significa che a loro arrivano le rimanenze del mercato occidentale, solitamente a ridosso della data di scadenza. Basti pensare al vaccino per il Covid che in Kurdistan è stato garantito a meno della metà della popolazione”.

Elena Padovan: