Alcune periferie delle nostre città coltivano i ragazzi tra disagi e malessere. Non si tratta di giovani di serie b, ma di persone che, inermi, seguono un destino già segnato, senza opporsene. A loro, poche le possibilità di riscatto e l’unica valida alternativa per sopravvivere e per sentirsi di valere qualcosa in un sistema completamente malato sembra essere data dalla malavita.
L’intervista
Interris.it ne ha parlato con don Daniele Merlini, direttore del Borgo Ragazzi don Bosco, opera salesiana che da più di 70 anni opera a favore di giovani e di famiglie che vivono l’emarginazione sociale in uno dei quartieri più malavitosi del quadrante est di Roma. Don Daniele conosce bene la periferia romana e ha spiegato che per cambiare il destino di molti ragazzi serve che le istituzioni capiscano che le periferie sono parte integrante delle nostre città e per questo motivo sono da considerarsi la priorità di qualsiasi intervento politico.
Don Daniele, in che ambiente operate?
“Noi ci troviamo a Centocelle, al confine con Quarticciolo, un altro quartiere molto problematico della capitale. Si tratta di una realtà con dei disagi sociali radicati e molti di questi riguardano la fascia della popolazione più giovane. Il nostro impegno è rivolto sopratutto a loro, per cercare di cambiare un destino che sembra già segnato in partenza, ma che, con l’aiuto di tutti, noi crediamo può essere migliorato”.
Quali sono i problemi di questi ragazzi?
“Tutto parte dalle famiglie di provenienza che avendo forti disagi sociali per esempio non appoggiano la scelta dei figli di frequentare la scuola. Alcuni di loro ci vanno quando si ricordano, altri invece la abbandonano ed inevitabilmente si ritrovano per strada a fare nulla o a svolgere qualche lavoro offerto dalla criminalità, come lo spaccio o la prostituzione”.
Dalla pandemia in poi questa situazione è peggiorata?
“Purtroppo sì perché per esempio molte famiglie non potevano permettersi un dispositivo elettronico le lezioni in DAD e di conseguenza il tasso di dispersione scolastica è aumentato. Serve un lavoro di squadra a cui devono partecipare molte componenti. Mai come ora le istituzioni non devono limitarsi alle pacche sulle spalle, ma devono scendere in campo, creando con noi nuove opportunità. Abbiamo coinvolto e questo aiuto del sindaco di Roma, al municipio V e alla Regione Lazio, perché crediamo che noi da soli possiamo tamponare una ferita sanguinante, ma che insieme possiamo rimarginarla del tutto”.
Come si può cambiare la sorte di questi giovani?
“Uno dei primi interventi è quello di rendere più bella e meno trascurata la zona in cui ci troviamo, perché abbiamo motivo per credere che dove c’è ordine la criminalità fa più fatica ad attecchire. Servono poi, dei programmi anche ricreativi che coinvolgano i giovani e impedisca loro di prendere anche solo per pigrizia delle strade sbagliate. Inoltre, si dovrebbe pensare a una scuola delle professioni dove i ragazzi possono imparare con le proprie mani un mestiere, come quello del giardiniere, dell’elettricista o del parrucchiere”.
Il disagio di questi giovani ha delle ripercussioni psicologiche?
“Sì perché si tratta di ragazzi molto insicuri senza dei valori solidi e senza delle prospettive certe per il proprio futuro. Questa condizione di precarietà è terreno fertile per attacchi di panico, crisi d’ansia e forti depressioni, che se non curate, possono anche portare a malesseri molto più profondi e in alcuni casi ad atti estremi”.
Chi nasce in questi quartieri, ha voglia di farcela?
“Ci sono due gruppi. Il primo è quello di tutti quei ragazzi che ricalcano le orme dei propri familiari e con uno spirito di rassegnazione non vedono altra possibilità. L’altro invece, raggruppa tutti quelli che decidono di provare a cambiare il loro destino mettendosi alla prova onestamente in un mondo che può essere diverso da quello visto fino a quel giorno. Quest’ultimi devono diventare un esempio tangibile che in qualsiasi motivo è possibile rinascere”.