Ci sono storie che racchiudono un mondo. Quelle che affollano i banchi della Scuola Penny Wirton sono così colme da essere tanti sistemi solari uniti in un unico, grande cosmo: uno spettro iconico e pulsante della nostra umanità. Alla Penny Wirton non si va a studiare, semmai ad imparare, che è un'altra voce del verbo vivere. Se di vita si tratta, lì nelle classi pullulanti di sguardi da ogni Continente, non si cela nulla. Una scuola senza muri è, infatti, il motto dell'istituzione, e la trasparenza è la prima regola di questo mondo bellissimo, anche a costo di svelare i chiaroscuri di cui la quotidianità è gravida. Come “Destiny”, incarnazione della contraddizione di una vita fiorita nonostante le disumanità. Ha sei mesi e sua madre, Annabel, è una ventenne nigeriana che lo ha partorito appena sbarcata in Italia. Questa ragazza dalla pelle come l'ebano ha serbato con sé il frutto di uno stupro avvenuto nei campi libici e gli ha dato la dignità e un amore che possono scaturire solo da vite feconde come la sua, che splendono nonostante tutto. Questa ed altre storie sono racchiuse nel libro Una scuola senza muri (Enrico Damiani Editore e Associati), scritto da Laura Bosio, fondatrice della Scuola Penny Wirton di Milano nel 2015. Il libro è il tentativo di mettere in nuce una normalità spesso confusa con buonismo: Bosio, che ha nella mente e nel cuore innumerevoli volti, pone l'accento su caiscuno di loro, nel tentativo di mettere insieme i frammenti di un'unica, eterogenea umanità.
Una scuola per tutti
Il nome Penny Wirton potrebbe trarre in inganno: la scuola prende nome dal protagonista di un romanzo per ragazzi di Silvio D'Arzo, Penny Wirton e sua madre, che racconta la vita di un giovane in cammino per riacquistare la sua identità. L'istituto è stato fondato nel 2008 dallo scrittore Eraldo Affinati e Anna Luce Lenzi a Roma, e oggi si estende a tutte le scuole che vogliono accogliere piccoli migranti e contribuire a creare con loro un profilo umano il più integrale possibile. La scuola – come sottolinea Laura Bosio a Interris.it – è gratuita ed autofinanziata: si basa, cioè, sull'attività di volontari. Ciascuno, a suo modo, investe la propria vita per l'altro. Ed è così che spera in un mondo in cui gli uomini si sentano, sempre di meno, delle isole.
Dottoressa Bosio, perché ha sentito l'esigenza di scrivere un libro sulla Penny Wirton?
“Il progetto è nato all'interno della scuola grazie a Piera Cusani, un'insegnante della Penny Wirton, che ha ritenuto fosse il momento di 'scrivere qualcosa'. È merito suo se il libro è alla fine uscito, perché da sola non sarei stata in grado di completarlo: la Penny Wirton è una scuola di cui sento la responsabilità, per cui sentivo una grande investimento parlare a nome della scuola”.
Nel libro torna spesso la parola inquietudine. Perché?
“Perché significa affrontare la quotidianità che la vita presenta. Non è mai facile farlo, anzi è frutto di adattamenti, di coraggio, di lucidità, di capacità di non arretrare, di forza interiore. E i migranti, nell'affrontare spesso giovanissimi il viaggio che sono costretti a fare, sono aperti a tale prospettiva. Quando decidono di partire, essi non hanno una vera scelta, o lo fanno o muoiono. L'identità, di cui noi spesso parliamo e diamo per scontato, è il processo verso un io più complesso, che include una pluralità di aspetti”.
In che senso?
“L'io non è mai qualcosa di monolitico, ma dipende sempre da un insieme di decisioni e di scelte. Si tratta allora di stabilire dove disegnarne i confini: cosa tagliare e come classificare, cosa assemblare e come costruire, cosa acquisire e cosa escludere. L’identità etnica rimane una risorsa importante, ma solo se si è aperti, flessibili, disponibili al confronto, sen za che questo comprometta il senso della propria integrità e continuità nel tempo. Di sola identità si muore. Per allontanare il pericolo, l’identità deve dare voce anche al suo alter ego, alla sua componente anti-identitaria: riflessiva, possibilista, pluralista. Andare oltre l'identità. Spinti da un movimento forzato – quello della fuga – i migranti sono meno rigidi nel riconoscimento delle altre identità. Sono, cioè, disposti a riconoscere l'altro uguale per alcuni aspetti, anche se non tutti, e questa consapevolezza rende il dialogo e l'incontro possibili”.
Ricorda una storia che l'ha particolarmente colpita?
“Sì, ricordo di una giovane donna nigeriana, Annabel, che era arrivata alla Penny Wirton con un bambino di sei mesi, buonissimo, che è entrato nel cuore di tutti noi della scuola. Era analfabeta e non è mai andata a scuola, ma aveva voglia di imparare. Quel suo sguardo illuminato davanti ai libri era come darsi stabilità dopo la tragedia vissuta. Era stata nei lager libici ed è stata stuprata. Il suo bambino era figlio di uno stupro e lei lo ha chiamato 'Destiny'. Non c'è da aggiungere altro…”
Sono storie che frammenti di vita. Che cosa rappresenta per lei la Penny Wirton?
“È un modo di rapportarsi ai migranti accogliendoli e dando una mano in un momento difficile per chi si trova in difficoltà. È uno scambio nell'insegnamento a tu per tu con un essere umano. Penso a quando, con i bambini, si insegna il verbo essere. 'Essere' acquisisce un senso più profondo, perché qui ci si guarda negli occhi. Si tratta di uno scambio di vite, di una vita fatta di gesti straordinari. Come quella volta che un nostro allievo, originario del Ghana, regalò una delle sue due mele all'insegnante. Era quello che aveva da mangiare. Per Eraldo Affinati, siamo portatori di una nuova antropologia”.
Cosa direbbe a coloro che discriminano i migranti?
“Che invece di chiudersi in se stessi dovrebbero aprirsi. Aprendosi e avvicinando queste persone senza pregiudizio, scoprirebbero molte cose che, invece, si precludono. La mia propensione è stata sempre tesa agli altri, la vita importa in quanto tale, i caratteri delle persone, le differenze sono una ricchezza. Facendo quest'esperienza della scuola ed essendo a contatto con una grande varietà di persone, si è sollecitati continuamente a superare un antico pregiudizio che si sente annidato”.
Perché il pregiudizio è così radicato?
“Perché il benessere ci rende più statici ed abbiamo la paura di perdere noi stessi nei momenti di crisi. Questo possesso suggerisce che le persone vogliono essere salvaguardate. Ma la difesa di questo possesso, apparente o reale, delle piccole cose è quello che depaupera la vita e persino l'economia. L'apertura è il vero arricchimento. La chiusura – e di riflesso il possesso – ci impoveriscono”.