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Morti sospette in carcere, la denuncia di Human right watch: in India circa 600 casi in 5 anni

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Quasi 600 persone, in India, tra il 2010 e il 2015, sarebbero decedute mentre si trovavano sotto custodia cautelare delle Forze dell’ordine locali: questo, almeno, è quanto emerge dal rapporto “Bound by brotherhood’: India’s failure to end killings in police custody”, stilato dall’associazione umanitaria “Human right watch” (Hrw) in oltre cento pagine di dati e referti. Dall’analisi effettuata dall’associazione basata, come specificato dagli interessati, su documenti ufficiali, vengono citati ben 17 casi di “morti sospette”, in merito ai quali sarebbero stati avviati altrettanti “approfonditi procedimenti d’indagine”. Nelle situazioni prese in esame, i detenuti presi in carico dalle forze di polizia non sarebbero stati tratti in arresto secondo le procedure stabilite per legge e, ancor peggio, sarebbero stati sottoposti ad abusi e torture fisiche, messe in atto da alcuni agenti.

Una pratica comune, evidenzia il rapporto, ma perlopiù ignorata, giustificata con motivazioni quali malori, malattie o epidemie congenite e quant’altro. In alcuni circostanze, addirittura, si è parlato di suicidi. Per far luce sui 17 casi posti sotto indagine, l’associazione umanitaria si è avvalsa della collaborazione dei parenti delle vittime, circostanza che ha, in più casi, smentito la versione ufficiale. Come sottolineato dagli attivisti, in India, la custodia cautelare è sancita con una regolamentazione legislativa e prevede, per il trattenuto, una visita medica di routine  (la quale ha esattamente lo scopo di attestarne le condizioni fisiche prima dell’eventuale detenzione), e l’obbligo di comparsa davanti a un giudice entro le 24 ore dal fermo.

Entrambi i vincoli, spiega ancora Hrw, verrebbero sempre più spesso glissati da parte dei rappresentanti delle forze dell’ordine e, in molti casi, la prolungata detenzione, unita all’applicazione di vessazioni fisiche, potrebbero costituire la reale causa dei decessi. E questo nonostante l’Organizzazione umanitaria delle Nazioni unite vieti espressamente le confessioni ottenute o, per meglio dire, estorte con metodi quali la tortura, attraverso il protocollo “International Convention for the protection of all persons from enforced disappearance”. Una convenzione alla quale, pur non avendola ancora sottoscritta, l’India ha aderito. A ogni modo, alla base di tale mancanza di osservazione al regolamento vi sarebbe il diverso codice comportamentale adottato dalla polizia, la quale non risponde al convenzionale procedimento penale né, di rimando, alle sue regole.

Una situazione decisamente critica quella evidenziata dal rapporto, il quale ha messo in evidenza una realtà sinistramente aleggiante all’interno dei percorsi di giustizia indiani. A testimonianza della tesi sostenuta dall’associazione, i numeri sugli abusi compiuti dagli organi di giustizia, riportati nelle pagine della relazione: prendendo in esame solo l’anno 2015, infatti, sarebbero circa 97 i decessi avvenuti in fase di custodia cautelare, dei quali solo 37 hanno portato all’avviamento di indagini interne ai commissariati coinvolti. Un quadro dai contorni senza dubbio preoccupanti, aggravati dalla quasi totale assenza di accurati accertamenti riguardo i casi sospetti. Quella che potrebbe definirsi, di fatto, una sorta di impunità.

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