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Manduria, una baby gang con molti responsabili

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Il Paese è ancora sotto choc per quanto successo a Manduria, dove 14 giovani hanno bullizzato per mesi Antonio Cosimo Stano. Una persecuzione, fatta di minacce e violenze quotidiane, che venivano riprese e poi diffuse dagli stessi ragazzi su Whatsapp. Il 66enne – affetto da problemi psichici e spregiativamente soprannominato “pazzo”, dopo un lungo ricovero in ospedale – è deceduto il 23 aprile scorso. In Terris ha sentito il parere, su quanto accaduto a Manduria, della docente di Psicologia dell'Università Sapienza. Che ha analizzato il disagio e le debolezze non solo della baby gang, ma anche del contesto sociale, educativo e sanitario. 

Professoressa Anna Maria Giannini esistono delle differenze tra la violenza di gruppo giovanile e quella adulta?
“Senz’altro esistono delle diversità: nella motivazione e nell’organizzazione della dinamica violenta. Quest’ultima nell’adolescenza molto spesso risente di meccanismi regolatori forti che sono in continua evoluzione. Per esempio: contesto e tipo di educazione ricevuta. Quindi come gli adulti sono riusciti, o meno, a regolare il clima intorno ai ragazzi. Senza dimenticare la scuola, dunque l’intera unità di riferimento dei giovani. Nell’adulto, che ha invece una personalità più formata, le dinamiche aggressive si basano su aspetti diversi”.

Perché una baby gang si accanisce su una persona con problemi psichici e quindi palesemente fragile
“Il meccanismo è plurifattoriale: il gruppo di ragazzi di cui sta parlando è composto da quasi tutti minorenni, tranne due. Appare molto evidente che questa baby gang si è organizzata sulla base di motivazioni che possono sembrare veramente surreali. Perché loro hanno detto: “Ci annoiavamo”. Si sono accaniti contro Antonio Cosimo Stano — soprannominato in modo spregiativo il “pazzo” — perché come spesso accade la vittima viene scelta tra coloro che non si possono difendere. Ciò rende più vile e umiliante la violenza. In realtà questi ragazzi sono dei deboli, con identità molto fragili e problematiche. Se per fare i passaggi adolescenziali hanno bisogno di provare la loro forza, su chi non ha potuto difendersi, ecco che abbiamo davanti uno scenario inquietante. Ma c’è una cosa più agghiacciante”.

Prego.
“Gli adulti. Sembra che un operatore della parrocchia avesse segnalato la situazione in maniera dettagliata. Allora c’è da chiedersi: quanti sono gli autori del presunto reato? In primis questi giovani, ma anche i “grandi” che non hanno fatto nulla e le persone che non hanno protetto la vittima. A mio avviso, chi sa e non dice, è colpevole quasi quanto chi conduce l’azione violenta. La dimensione omertosa, di non protezione della vittima, è gravissima. Rinforza nei ragazzi la convinzione che quello che hanno fatto, andava bene”.

Secondo lei una società così secolarizzata come la nostra, dove poche cose assurgono al ruolo di valori, influisce sul percorso di crescita dei ragazzi?
“Penso che il fattore centrale sia la quasi totale assenza di valori. Che sembrano man mano lasciare il posto al narcisismo, ad un centraggio sul proprio ego molto forte. Allora credo che noi adulti, tutti, ci dovremmo fare tante domande importanti. Quanto tempo dedichiamo ai nostri figli per farli crescere in un ambiente sano e rispettoso? Come dobbiamo insegnare loro a rapportarsi con chi viene percepito come “diverso”? Dobbiamo pure temere che adesso venga minimizzata questa vicenda, si tenda a normalizzare quanto accaduto. Ho già letto osservazioni come: “In fondo abbiamo girato due filmati su Whattsapp”. È gravissimo perché i filmati li hanno realizzati mentre facevano azioni violente”.

Proprio Whatsapp pone un’altra domanda: cosa li ha spinti a scambiarsi i video sul servizio di messaggistica istantanea?
“Questa per loro è la vera “perversione”. Compiono l’azione violenta perché da una parte sono soddisfatti nel vedere qualcuno che soffre, il che già dice assai sulla loro empatia; dall’altra girano filmati perché li rende fieri. Devono dimostrare ad amici e pari età: questa la parte più motivante della vile azione che hanno fatto. Per questo prima mi auguravo che gli adulti non minimizzino l’accaduto. Questi ragazzi devono essere messi di fronte le loro responsabilità, rispondere di quello che hanno fatto e che verrà accertato dalla giustizia. Noi non ci vogliamo sostituire ai magistrati. La cosa più grave che può accadere è che vengano difesi ad oltranza. E che non riconosca la gravità di quello che hanno fatto. Rafforzerebbe la loro dimensione violenta e il fatto che “tutto è possibile, tanto non si paga mai”.

Secondo lei il sistema sanitario tutela a sufficienza le persone con malattie psichiche?
“Naturalmente il sistema sanitario in Italia ha suoi problemi, soprattutto per quello che riguarda le patologie mentali. Che quest’uomo sia stato lasciato da solo non c’è dubbio. Se quanto abbiamo letto è vero, cioè che per giorni non si è alimentato per paura di uscire da casa, vuol dire che nessuno ha considerato lo stato di reale problematicità. Altrimenti il meccanismo violento si sarebbe interrotto prima. Per questo dico che i responsabili sono tanti. I ragazzi che hanno praticato le aggressioni, chi l’ha vista e ha taciuto, chi non gli è stato vicino.

Tragedie come quella di Manduria possono essere evitate con la prevenzione?
“Se dedicassimo il tempo dovuto nelle scuole alla prevenzione efficace per quel che riguarda questo tipo di condotte — quindi educazione alla legalità, all’affettività, all’empatia, alla convivenza costruttiva — forse sì. I genitori inoltre non dovrebbero prendere sempre le difese dei figli e presentare in maniera ragionevole le regole per farle rispettare. I giovani devono essere ispirati da questi valori. Serve dunque una grossa prevenzione, dato che se succedono queste cose siamo di fronte ad un fallimento, di noi adulti. Senza valori si ritorna ad epoche in cui nessuno veniva difeso. La civilizzazione ha fatto molta strada, eppure parliamo spesso di violenza contro le donne, bullismo e baby gang. Stiamo andando verso il 2020, però le relazioni umane sono quanto meno rozze e poco evolute”.

                  

Giuseppe China: