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Mal d'archivio: la nuova patologia dell'accumulatore seriale

L'archive fever (febbre o mal d'archivio) è l'ossessione contemporanea dell'era digitale e social, diffusa ovunque, di memorizzare dati in modo sicuro al fine di avere sempre disponibili immagini, video e documenti. Si tratta di un fenomeno in aumento, in virtù anche del subdolo aiuto offerto dalle nuove tecnologie. Produce stress a causa della paura di perdere dati o di dimenticare qualcosa. L’accumulatore compulsivo, per esigenze di schedatura, collezionismo o di prova (in un’epoca di proliferazione di truffe e di diatribe giudiziarie) vive, quindi, in uno stato di angoscia che accomuna a una mole di tempo sprecata, senza filtrare gli elementi davvero importanti da salvare. La febbre d’archivio, di preservare il presente dalla distruzione e dall’oblio, contagia sia il singolo individuo sia gli enti pubblici per fini istituzionali e culturali, sia i privati per catalogare, offrire statistiche, servizi e trend di mercato. 

Le fobie degli utenti della rete

In tema di fobie sociali, tra i dubbi e le paure più frequenti degli utenti della rete, figurano quelle relative al cambio del pc, della sostituzione o dello smarrimento dello smartphone, di non effettuare backup sicuri, di virus in grado di cancellare il proprio archivio o di violare la privacy, di perdere dati importanti per la propria azienda o  di non averli a disposizione durante i viaggi, di non avviare metodologie di archiviazione nelle collezioni di oggettistica più svariata che si proteggono nelle abitazioni nonché quelli più moderni, legati al timore di perdere le conversazioni effettuate tramite WhatsApp o di annullare i “progressi” raggiunti, meritoriamente, attraverso ore di dura applicazione nei videogiochi.

Le statistiche

Le statistiche offerte nel 2016 da Kroll Ontrack (dal 2018 Ontrack), azienda leader nel settore del recupero dei dati, riferiscono che in Italia solo il 36,2% delle aziende effettua il salvataggio quotidiano dei dati, a fronte del 70,6% della Germania e del 61,9% degli Usa. Tra le cause più comuni di perdita dei dati figurano i danni di tipo hardware (56%) e l’errore umano (26%); i virus incidono solo per il 4%. L’archiviazione attraverso i dischi esterni, soluzione più economica ma meno sicura, è la più praticata (51,75% contro il 41,16% degli Usa); al secondo posto figura l’opzione immateriale: il cloud computing (20,72%, Usa al 47,05%). La stessa azienda, confronta i dati con un sondaggio effettuato durante il World Backup Day del 31 marzo scorso (https://www.ontrack.com/it/blog/sondaggio-backup-perdita-dati-diminuzione/), affermando che “i dati relativi alla frequenza con cui viene effettuato il backup dei dati sono a malapena cambiati: il 62% ha affermato di aver addirittura effettuato un backup giornaliero nel 2018. Nel 2017 la quota era del 58%. Il 16% degli utenti esegue un backup settimanale, analogamente al 2017 quando il dato era poco sotto il 20%. […] Com’è quindi possibile che dai risultati del 2018 emerge che il numero di casi di perdita di dati è diminuito bruscamente dal 19,5% al 13%, sebbene nello stesso tempo la frequenza del backup e il controllo siano rimasti pressoché invariati? Riteniamo che ciò abbia a che fare con i supporti di backup utilizzati: rispetto al 2017, l’anno scorso è stato archiviato un numero significativamente maggiore di backup sul cloud e sui server online. In questo caso c’è stato un incremento dal 20% a oltre il 38% […] Il Sondaggio Ontrack è stato condotto negli Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Svezia, Paesi Bassi e Francia”.

Una tendenza sempre più maniacale

Da alcuni definita come “industria della memoria”, la tendenza sempre più maniacale a conservare e fissare ciò che è stato pur non avendolo vissuto interamente, non è altro che una sottile e vana illusione di fermare il tempo e resistere alla morte, comunque temuta come una inesorabile perdita di dati personale. Nell’ambito della versione più aggiornata del moderno “tutto e subito”, il miraggio è di cristallizzare la propria vita e poterla riavvolgere e rivivere quando si crede; il tutto nell’ottica del fruitore contemporaneo, ormai consumatore forsennato nel consultare digitalmente ciò che vuole, quando lo desidera (specie nell’immediato), per le volte che ritiene necessario. La perdita della memoria digitale pone più ansia di quella umana. Il rischio di una memoria personale, minata dal volume dei dati, dall’età che avanza e dai pericoli insiti mira, infatti, a garantire una parallela sopravvivenza attraverso la corrispondente memoria digitale.

Schiacciati dal potere degli archivi

Il saggista Francesco Guglieri, in un articolo del 14 marzo 2017, pubblicato da IL Magazine-Il Sole 24 Ore, scrive “Siamo schiacciati dall’autorità e dal potere degli archivi, dalla loro massa gravitazionale che incombe ansiogena sulle nostre teste, dalla consapevolezza della loro presenza trascendente, più grande di noi, su cui non abbiamo alcun controllo”. L’esigenza, esasperata, di conservare la storia personale attraverso il collezionismo materiale e l’archiviazione digitale, termina col tarpare l’esistenza stessa e col procedere all’inutile immagazzinamento indifferenziato, in cui l’enorme mole di elementi conservati finisce per essere, già in vita, solo un autentico memoriale.

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