Difendere la loro terra e l’ambiente. Sono i motivi per cui 185 ambientalisti sono morti nel 2015, in tutto il mondo. Come è accaduto a Bertha Caceras, assassinata nella sua casa in Honduras per aver intrapreso battaglie per difendere i diritti degli indigeni e l’ambiente. Una cifra che segna un triste record, da quando nel 2002, l’organizzazione non governativa Global Witness ha cominciato a pubblicare un rapporto annuale sulla questione. Inoltre, rispetto al 2014, la cifra ha fatto registrare un aumento del 60%.
Secondo il report dell’Ong, nel 2015 i Paesi più pericolosi sono stati il Brasile e le Filippine, con rispettivamente 50 e 33 persone uccise, seguiti da Colombia, 26 morti, Perù e Nicaragua, 12 morti, e Repubblica democratica del Congo, con 11 morti.
Un quarto dei casi (42) riguarda progetti di sfruttamento di risorse minerarie, ha precisato l’ong; in altri 20 casi le vittime si opponevano a progetti legati al settore agroalimentare, mentre altre 15 vittime erano contrarie allo sfruttamento delle foreste e altre 15 alla costruzione di dighe idroelettriche. Nel rapporto viene evidenziata in particolare la vulnerabilità dei popoli indigeni, spesso isolati: circa il 40% delle vittime faceva parte di tali comunità.
A fronte di tale situazione, Global Witness ha sollecitato i governi interessati a “intervenire con urgenza per fermare questa spirale di violenza”, proteggendo le terre e le attività, portando i responsabili davanti alla giustizia, ma anche “riconoscendo in modo formale i diritti delle comunità e contrastando la corruzione e le violazioni che minano il settore delle risorse naturali”.