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La via Crucis dei bambini oncologici

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Ci sono bambini che a causa della malattia, della sofferenza, sono sfiniti, non ce la fanno più e chiedono quando arriverà la morte. E' molto difficile rispondere a una domanda di questo tipo e quando accade è dolorosissimo“. A parlare è la dottoressa Sabina Vennarini, radiologa, radioterapista, oncologa pediatrica e dirigente medico presso il Centro Protonterapia di Trento, una struttura altamente specializzata nella cura dei tumori, ma che svolge anche attività di ricerca in ambito clinico, preclinico, spaziale, dei sensori e delle infrastrutture. Dispone di due sale dotate di gantry (ovvero la struttura che permette di indirizzare con grande precisione le radiazioni, ruotando a 360° intorno al paziente) e di una a uso sperimentale e di ricerca, munita di un fascio fisso. Attualmente, quello Trento è l’unico centro di protonterapia afferente ad un’azienda sanitaria pubblica in attività in Europa ed è l’unico in Italia ad essere dotato di gantry e della tecnologia Pbs (pencil beam scanning) per l’erogazione del fascio di protoni.

La cura dei bambini

Questa unità operativa dell'Ospedale Santa Chiara di Trento ha, tra le sue principali specializzazioni, il trattamento dei tumori pediatrici e dell'adolescente che si sottopongono anche a sedute di terapia giornaliere. Questo li porta a trascorrere dalle 4 alle 6 settimane lontano dalle loro case, dai loro amici, strappandoli alle loro abitudini. Per non aggiungere alla fatica fisica un'ulteriore sofferenza emotiva, nel centro sono stati creati degli spazi dedicati proprio ai più piccoli dove possono svolgere laboratori di pet therapy, robotica ed altre attività ludico-ricreative. Ad accompagnare i bambini lungo questo percorso è un team di medici altamente qualificati. Uno di loro è la dottoressa Vennarini. In Terris l'ha intervistata. 

Che cosa è la protonterapia?
“Si tratta di una radioterapia a fasci esterni che non utilizza la convenzionale radioterapia costituita con le macchine acceleratrici lineari con un fascio di radiazioni x, ma particelle atomiche che prendono il nome di protoni. La differenza sostanziale è che mentre la prima attraversa una superficie e continua a rilasciare energia anche dopo aver superato il bersaglio da colpire, la protonterapia resta circoscritta al tumore. Viene quindi meno la dose in eccesso normalmente rilasciata dai raggi x. Di conseguenza potremmo dire che il fascio di protoni è collimato nel punto dove noi vogliamo andare a colpire, con un risparmio pressoché completo dei tessuti vitali circostanti al nostro target, detto anche volume di malattia tumorale. 

E quindi ha meno conseguenze sul paziente rispetto alla classica radioterapia?
“Sì, proprio per questo è particolarmente indicato negli organismi in crescita, cioè i pazienti pediatrici. La riduzione della dose e soprattutto dell'energia in eccesso che viene normalmente liberata, salvaguarda i tessuti sani e in particolare quelli in accrescimento. Questo comporta sia una diminuzione degli effetti collaterali a medio e lungo termine, che degli effetti acuti durante il trattamento”.

Il centro cura pazienti che arrivano da ogni parte d'Italia e del mondo. Molti di loro sono bambini. Ci può dire qual è il paziente più gioane che avete curato?
“Si tratta di un bimbo che non aveva ancora due anni ed è rimasto in cura per due anni nel nostro centro. Apro una piccola parentesi: usualmente, per la nostra società scientifica, non vengono utilizzate le radiazioni per pazienti che abbiano meno di tre anni. Però quando ci troviamo di fronte a malattie molto aggressive, che non si fermano e che possono impattare sulla prognosi e sulla vita di un bambino, questi casi così atipici vengono decisi in regime multidisciplinare. Un team di esperti, si riunisce, parla del caso e si decide insieme. Posso confermarti che qui al centro abbiamo avuto in cura bambini al di sotto dei tre anni di età”. 

Come si fa a spiegare a un bambino così piccolo che dovrà affrontare una malattia seria?
“Posso dirti che oggi (mercoledì ndr) ho avuto un bambino nuovo e gli abbiamo dovuto spiegare questo tipo di trattamento. Come? Innanzitutto dicendogli sempre la verità, cioè come si svolge la terapia: quanto dura, le modalità di esecuzione e la preparazione del trattamento. Minimizzare quello che dovrà affrontare o creare una situazione di panico nel bambino eccedendo in informazioni, non provoca altro che una scarsa compliance tra il medico e il piccolo, e non è questo l'obiettivo che si vuole raggiungere. Gli si descrive momento per momento quello che è il trattamento: dalla preparazione di un maschera, che servirà per renderlo immobile, fino a fargli vedere l'apparecchiatura e la posizione che dovrà assumere. Lo si aiuta a capire che dovrà rimanere fermo per un lasso di tempo ben definito. Questo è importantissimo perché quasi sempre chiedono quanto durerà la seduta. Se non si crea questa liason tra il medico e il piccolo, spiegandogli passo passo quel che succede, il bambino potrebbe avere delle crisi vere e proprie di ansia, fino al rifiuto del trattamento, compromettendo il risultato desiderato. Questo potrebbe portare, se non sequele emotive, dei veri e propri choc. In questo processo è molto importante la famiglia. Io generalmente parlo prima con i genitori, cerco di creare una sorta di alleanza tra di noi, e poi espongo tutto il resto al bambino. Oggi con successo, un bambino di sei anni è riuscito a portare a termine tutta la prova: dalla creazione della maschera fino a vedere il macchinario e provare la posizione, senza mai aver pianto o aver mostrato paura. Il risultato è stato eccellente”. 

Che rapporto si crea con i piccoli pazienti tra una seduta e l'altra?
“Innanzitutto vorrei dire che questo non è un lavoro ma una missione di vita. Questi bambini, alla fine diventano tanti tuoi figli. Con il medico si crea un rapporto di fiducia tale che il minore si abitua a questa situazione, che generalmente dura dalle 5 alle 7 settimane, intensamente dal lunedì al venerdì perché la terapia generalmente ha questo tipo di indicazioni. Si crea unv ero e proprio rapporto di tipo familiare. Si gioisce insieme quando si porta a casa un giorno in meno di terapia, si partecipa agli effetti collaterali e quindi si sostengono sia il bambino che le famiglie durante tutto il processo terapeutico, che potrebbe essere anche un iter di sofferenza quando subentrano la nausea, il vomito, gli arrossamenti cutanei, la difficoltà a deglutire. Quindi è importante che tra il bambino, il medico e la famiglia, quotidianamente ci sia un contatto. Succede anche che mamma e papà, dopo che il figlio ha terminato la terapia, si ritrovino a pensare di dover tornare alla loro casa e hanno paura. Questo accade perché qui c'è un habitat protetto che li accudisce e li gestisce. Questo fa capire quanto possa essere forte il legame che si crea”. 

Come si riesce ogni giorno ad affrontare tanta sofferenza?
“Non è una vita semplice. Io vivo una condizione a 360 gradi: il telefono è sempre acceso. Sono costantemente informata, giorno per giorno. In questo periodo abbiamo in cura nel centro una bambina che, a causa di un problema di salute, è ricoverata. Quindi si può facilmente capire quanto sia intenso il passaggio comunicativo, la rassicurazione. E' molto difficile questo lavoro, emotivamente sei sempre sul filo del rasoio, ci vuole un grande controllo, un grande equilibrio”. 

Cosa prova quando vede uscire dal centro un bambino e sa che è guarito?
“Una gioia immensa. Una volta che finiscono la protonterapia, io li continuo a seguire. Ho ricevuto una foto bellissima: di una bambina che, dopo un anno di cure, ha visto ricrescere tutti i suoi capelli e lei per la prima volta si è mostrata in classe senza bandana e mi ha scritto che voleva condividere con me questo momento. Il ripristino alla vita, quando si affronta questo genere di malattie, è dettato anche da quelle che possono sembrare piccole cose”.

I bambini le chiedono mai se moriranno?
“Purtroppo il concetto e la paura della morte esistono in un bambino. E' proprio per questo motivo che, come dicevo, al bambino va detta tutta la verità e non va ingannato. Molti di loro vogliono vivere, altrettanti, invece sono sfiniti, non ce la fanno più – te lo dimostrano e lo dicono –  e chiedono se la morte arriverà. Di fronte a una domanda di questo genere è molto difficile rispondere. Loro credono ciecamente in noi medici e tutto quel che gli dici lo incamerano nella loro mente. Il vivere è quotidiano, cerco sempre di spiegare ai bambini come sia importante vivere il momento, l'attimo, poi domani vedremo come poter aggiustare le cose. Dare sempre un barlume di speranza è importantissimo. Ma, ripeto, ci sono bambini che sentono la morte e te lo dicono. Questo è dolorosissimo da affrontare”. 

 

Manuela Petrini: