Chi sono? Che senso ha la mia vita? Qual è il mio posto nel mondo? Domande che, forse, almeno una volta nel corso della nostra vita tutti ci siamo posti. Ma alcune volte a questi quesiti non si riesce a dare una risposta e si crea un vuoto profondo nell'anima delle persone. Questa sensazione di inadeguatezza, di disagio, di paura che attanaglia lo stomaco va placata e colmata. Uno spinello, una dose, sostanze che ti sballano, ti fanno sentire euforico: è questa l'illusoria soluzione che molti giovani pensano di aver trovato, non capendo che invece è solo l'inizio di un baratro che li inghiotte e dal quale sarà difficile uscire se non accetteranno la mano che gli viene tesa.
Dalla droga al carcere, fino a una nuova vita
Questo senso di disagio, la sensazione di non essere amato e di non essere all'altezza delle aspettative della famiglia, hanno portato Matteo a modificare il suo comportamento. A In Terris ha raccontato che per farsi accettare ha iniziato ad atteggiarsi come il tipo “brillante” del paese, il simpatico. Tutto per avere gli occhi puntati su di lui. Iniziano così le prime bevute di alcol, l'uso di cannabinoidi e poi le droghe sintetiche. Figlio di un carabiniere, pur di farsi degli amici ha rinnegato, in modo inconsapevole, il lavoro del padre. Messo alle strette dai genitori, entra per la prima volta in una comunità terapeutica, ma dopo tre giorni dice basta. Ha vissuto per sei mesi in strada e per procurarsi la droga ha iniziato a rubare. In carcere conosce un sacerdote della Comunità Papa Giovanni XXIII, don Nevio, e si avvicina a lui inizialmente perché regalava sigarette. “La seconda volta che mi hanno arrestato ho detto basta. Ho pensato di dovermi affidare alle persone che mi volevano bene, anche se non vedevo luce – racconta Matteo -. Sono stato spinto dalla famiglia e dagli amici a fare il programma terapeutico, non era una mia scelta, ma con il tempo ho maturato la consapevolezza dell’importanza di affidarmi a mani esperte. Ho capito che ascoltare chi mi voleva bene mi faceva stare meglio”. “Di quel periodo ciò che mi è rimasto più impresso nel cuore sono state le fatiche quotidiane e il modo di reagire. Era una bella sensazione, ti sentivi completo e pensavi: 'Sono riuscito a fare quella cosa nonostante le mie paure'. Fondamentali anche tutti i valori sani che mi sono stati trasmessi e che fuori dalla comunità sono difficili da ritrovare”.
Da “innamorato” della droga all'amore per la vita
La storia di rinascita di Fabrizio è stata lunga, in salita e resa ancora più difficile a causa della perdita di un figlio. E' cresciuto da solo con la mamma, non ha mai conosciuto il padre. I primi sintomi di vergogna e disagio sono iniziati alle scuole medie, accentuati dalla rabbia verso un papà che non ha mai conosciuto. Deriso dai suoi coetanei per non avere accanto a sé un padre, ha iniziato a manifestare problemi relazionali e affettivi. Sentiva un enorme bisogno di riscattarsi e si è sempre avvicinato a persone con storie simili alla sua. Ha iniziato a fumare canne, ma tramite la mamma entra nel mondo della modelleria delle scarpe. Il settore è redditizio e incomincia ad avere a sua disposizione molto denaro. Inizia a comprare e rivendere cocaina. “Il fatto che tutti mi cercavano, mi faceva sentire gratificato, considerato”, racconta Fabrizio, ex tossicodipendente che ha terminato il percorso terapeutico dell'Apg23. “Quano ho provato l'eroina che anestetizzava i sensi, inibiva il dolore, sentivo di provare sensazioni forti che mi facevano stare bene. Sostituiva l'amore di questa ragazza che mi aveva lasciato, calmava la rabbia che avevo nei confronti di mia madre. Mi sono innamorato di questa sostanza”, spiega a In Terris. L'uso dell'eroina influisce negativamente sul suo lavoro e viene licenziato. Conosce una ragazza, nasce l'amore e, nonostante le difficoltà, vanno a vivere insieme e hanno un bambino. Ma ben presto, Fabrizio si sente oppreso dalle responsabilità e, dopo un anno inizia a drogarsi di nuovo. Comincia un periodo di forte tensione, litigi. Fabrizio se ne va. Lascia il lavoro e comincia anche a spacciare; passano anni e la voglia di ricostruire una relazione con il figlio è così forte da spingere Fabrizio a entrare in una comunità per tre anni. Ma una nube oscura si profila all'orizzonte. Il figlio si ammala gravemente e in pochi mesi muore. Questo dramma fa sprofondare l’uomo in un nuovo abisso. E' così che conosce un ragazzo che lo convince a entrare in una comunità terapeutica dell'Apg23. Inizia così, tra molte difficoltà, un nuovo percorso. Quando manca poco alla fine del programma, parte per una missione con i poveri a Bucarest, conosce un ragazzo paralizzato che gli dice: “Ti ha mandato Dio per riscattarti“. “Questa comunità mi ha offerto degli strumenti. Ora racconto la mia storia nelle scuole e in questo modo anche mio figlio rivive – racconta Fabrizio – Ho fatto il corso come operatore sanitario e mi sono accorto che il lavoro nel campo sociale mi aiuta molto. Anche se ho finito il programma non mi allontano. Ho la consapevolezza di avere dei punti di riferimento. La droga è una robaccia, non mi sento immune, ma ci sono persone intorno a me pronte a sostenermi”.
Uno “sbaglio” che cambia la vita
Matteo ha conosciuto la Comunità Papa Giovanni XXIII grazie al suo vizio per il fumo. In cura in un'altra struttura dove non poteva fumare, ha chiesto di essere trasferito in una nuova dove avrebbe potuto farlo. E' così che 4 anni fa entra nella comunità terapeutica di Villafranca, nel veronese. “L'ho conosciuta quasi per sbaglio, ma sono contento di essere rimasto e aver finito il programma e di continuare a stare ancora qui”. racconta Matteo, 24 anni, a In Terris. “L'Apg23 è fatta di tanta umiltà e fraternità“. Quando aveva 17 anni, Matteo ha iniziato a usare cannabinoidi molto frequentemente, anche 3-4 volte al giorno, poi ha aggiunto anche altre droghe come funghi allucinogeni e Lsd. Il sentirsi diverso dagli altri lo ha spinto a provare queste sostanze di cui poi non ha potuto fare più a meno. Una sera si sente male, la madre lo scopre. “Ho passato del tempo lontano dalla mia famiglia e il mio cuore stava cominciando a sentire il peso della paura – racconta Matteo – Il mio dottore mi ha consigliato di andare in una comunità, la Papa Giovanni XXIII. Dovevo rimanere solamente per una settimana di riflessione. Sono quattro anni che sono qui. Non ho cercato io la comunità, me l'hanno consigliata, è stato davvero un bel suggerimento. Di questo percorso mi rimane nel cuore la gioia del cambiamento, della rinascita, la voglia di stare bene e vivere – racconta – Sono ritornato nei miei panni e ho capito finalmente questa vita”.
La festa del riconoscimento dell'Apg23
Le storie di rinascita – potremmo anche dire di resurrezione – a una nuova vita sono molto simili a quelle dei circa cento giovani che oggi, nella Parrocchia della Resurrezione (o Grotta Rossa) di Rimini, con una liturgia speciale celebrata da monsignor Francesco Lambiasi, festeggeranno la conclusione del programma terapeutico: percorso che, una volta concluso non deve essere dimenticato. Proprio per questo motivo tutta la Comunità Papa Giovanni XXIII, oggi, come ogni 26 dicembre – a partire dal 1995, quando don Oreste iniziò questa tradizione – si stringe intorno a questi ragazzi per la “festa del riconoscimento“.
I 40 anni delle Comunità terapeutiche dell'Apg23
Una festa nella festa. Infatti, l'Apg23 celebra i 40 anni dell'attività delle comunità terapeutiche. La prima fu aperta a Igea Marina, poi trasferita a Trarivi, sempre nel riminese ed è stata la struttura che ha avuto tra i suoi volontari Sandra Sabattini, che il 14 giugno 2020 sarà beatificata. Era una giovane studente di medicina, che ha vissuto una parte della sua vita nella struttura di Trarivi, completamente immersa nel servizio ai poveri. “Un appuntamento importante, al quale parteciperanno tutte le comunità terapeutiche dell'Apg23”, spiega Alberto Zucchero, membro dell'associazione fondata da don Oreste Benzi e operatore in una di queste strutture. I festeggiamenti per il quarantennale si apriranno proprio con la festa del riconoscimento dove, oltre ai ragazzi che hanno finito il programma curativo e ai membri dell'Apg23, saranno presenti anche familiari ed amici. “Un momento molto importante – spiega Alberto Zucchero – in cui si avverte un clima simile a quello che c'è durante un battesimo o un matrimonio”. “Un successo, come Papa Giovanni XXIII – spiega – dovuto a una forte alleanza. Il privato ha bisogno di una di sinergia continua con il sistema pubblico. Solo insieme si può iniziare una fase nuova. Oggi il problema della tossicodipendenza non è più quello di 40 anni fa, con l'eroina e l'emarginazione sociale. Oggi c'è una dipendenza patologica multiforme che non tocca solo le sostanze, ma anche i comportamenti: la compulsione da internet e dal gioco, ad esempio. E' un'epidemia di dipendenze che colpiscono persone che conducono una vita molto in salita”.
L'intervista
Ma come funziona la vita in una comunità terapeutica? Chi sono i drogati di oggi e quelli di ieri? Quanto pesa la riscoperta della fede per poter tornare alla vita vera? In Terris ne ha parlato con Giovanni Salina, coordinatore delle comunità terapeutiche dell'Apg23.
Chi era il drogato di ieri e chi è il drogato di oggi?
“Ritengo che le differenze riguardino l'uso di sostanze e il clima sociale. Anni fa si avevano più risorse personali e interiori nell'affrontare il tema della dipendenza. Oggi purtroppo incontriamo molte persone, giovani e meno giovani, che sono davvero in difficoltà, anche per problemi di tipo psicologico. Forte dei trent’anni che ho vissuto in condivisione con queste persone, posso affermare questo: il problema è sempre la persona, il bisogno di avere risposte dalla vita. C’è un’inquietudine, un'angoscia profonda e spesso la droga diventa la risposta a questo bisogno dell'uomo di trovare un senso, il proprio posto nella vita. Ciò è quanto riscontro visitando le comunità terapeutiche, sia in Italia che all'estero. Ci sono diversità di culture, di approcci nei vari stadi rispetto all'uso di droghe, ma il punto di unione è sempre la persona e i suoi bisogni”.
Il percorso della comunità terapeutica è affiancato anche dalla riscoperta della fede. Quanto è importante?
“Noi riteniamo centrale questo percorso. L'incontro con Dio dà la vera risposta, il vero scopo della vita. Noi non chiediamo ai ragazzi che vengono da noi di credere o di partecipare ai momenti di preghiera. Li accompagnamo. Sono i ragazzi che guardando dove si 'nutrono' gli operatori, dove affondano le loro radici e sentono poi l'esigenza di porsi in modo favorevole all’incontro con Dio. Il percorso che facciamo con i ragazzi prevede anche incontri con psicologi, momenti di discussione in gruppo, colloqui con gli operatori. Arriva sempre il momento in cui il ragazzo si pone la domanda sulla fede ed è in quel momento che l'operatore deve essere pronto e attento ad aiutarlo a trovare una risposta e forrnirgli tutti gli strumenti utili per comprendere l’incontro con Cristo”.
Durante il programma di riabilitazione, i ragazzi vengono coinvolti in alcuni laboratori artigianali, qualcuno viene anche inserito nelle cooperative dell'associazione. Quanto è importante per il loro percorso riscoprire l'impegno lavorativo?
“L'aspetto avorativo per le nostre comunità è una parte fondamentale che va a integrare il percorso terapeutico e la nostra metodologia educativa. Non si tratta di un lavoro vero e proprio, sono delle attività di tipo manuale che si svolgono all'interno o al di fuori della struttura e che servono a rafforzare l'aspetto della sicurezza e a tenerli impegnati in modo creativo e gradevole. E' un banco di prova che aiuta a essere costanti, precisi, puntuali. Viene vissuto come completamento e prolungamento del percorso terapeutico. Queello che noi riteniamo centrale nel programma non è tanto il lavoro in se’, ma accompagnare la persona a fare un lavoro di tipo introspettivo e per questo è fondamentale la lettura, la revisione della storia della vita, affrontando le varie tappe per dare ai ragazzi la conoscenza di se’ stessi. Quando una persona si conosce, è consapevole di ciò che è stata, di cosa è successo, getta le basi per migliorarsi”.
Le comunità terapeutiche sono inserite nel territorio e nella società. Le persone esterne come percepiscono queste realtà?
“Oggi sicuramente meglio rispetto al passato. Le comunità terapeutiche interagiscono con il territorio, la parrocchia, le associazioni sportive. Le nostre comunità sono inserite nella Papa Giovanni XXIII. Non sono un'isola. Per i ragazzi sono previsti , in momenti diversi del percorso, inserimenti nelle case famiglia e nelle cooperative sociali, prevediamo anche periodi nelle zone di missione. Si tratta di esperienze di vita che modificano e aiutano i giovani, come quelle che riguardano l'incontro con il mondo della scuola e con le disabilità”.
Cosa ne pensa delle volontà di approvare la legalizzazione delle droghe leggere?
“Lo Stato si darebbe la famosa zappa sui piedi. Non si è consapevoli a sufficienza del danno che queste sostanze possano provocare. Alcuni di quelli che ne fanno esperienza, escono devastati da questa logica del “tutto è possibile”. In realtà non basta ridurre il danno per trovare la soluzione e noi adulti non possiamo permettere che passi un messaggio del genere. Non è concepibile che qualcuno possa pensare che legalizzare qualsiasi tipo di sostanza