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Ius soli e Ius culturae, un nuovo tentativo

Il compagno di banco di vostro figlio, quello che incontra a scuola tutte le mattine, potrebbe essere un cittadino di “serie b”. Pure se è nato in Italia, se i suoi genitori sono di nazionalità straniera e non hanno preso la cittadinanza del nostro paese. Nelle scuole della Penisola infatti un alunno su dieci è straniero, oltre la metà di questi non è cittadino italiano anche se è venuto al mondo qui. Nel nostro paese è in vigore una normativa sulla cittadinanza risalente al 1992 e fondata sulla trasmissione al figlio o alla figlia da parte dei genitori italiani, anche adottivi. Nel corso della precedente legislatura aveva iniziato il suo percorso parlamentare una modifica della legge che consentiva ai minori stranieri di diventare cittadini italiani a tutti gli effetti senza dover aspettare i 18 anni, ma non è stata approvata sia per il disaccordo tra gli alleati della coalizione di governo – Partito democratico e Alternativa popolare – sia perché all’ultima seduta disponibile la discussione sul disegno di legge che introduceva i principi dello ius soli “temperato” e dello ius culturae è saltata per la mancanza del numero legale. Tra gli assenti, molti senatori del Movimento 5 Stelle, ora principale esponente dell’esecutivo. Lo scorso 3 ottobre si è tornati a parlare di una riforma della legge sulla cittadinanza. È ripartito, in Commissione Affari costituzionali della Camera, l’iter della proposta di legge che vede come prima firmataria Laura Boldrini, incardinata l’autunno di un anno fa.

Sangue, suolo e istruzione

Sono le tre basi a cui si può legare il diritto alla cittadinanza: lo ius sanguinis (diritto di sangue); lo  ius soli (diritto del suolo); lo ius culturae. Dal 1992 ad oggi la legge italiana su basa proprio sul primo e prevede due meccanismi di acquisizione della cittadinanza, uno automatico e uno subordinato. Nel primo caso, un bambino ottiene la cittadinanza se ha almeno un genitore italiano, viene adottato da italiani o se i genitori sono ignoti o apolidi. Nel secondo, chi arriva in Italia può ottenere la cittadinanza – presentando domanda – per naturalizzazione dopo 10 anni di residenza, per matrimonio con un cittadino italiano o dimostrando di essere discendente di italiani. Riguardo lo ius soli, si può parlare di “puro” e di “temperato”. Nei paesi dove vige il “puro”, chi nasce sul territorio riceve in automatico la cittadinanza di quello stato. È la situazione di Stati Uniti, Canada e parte del Sud America. Mentre in Europa alcuni paesi prevedono lo ius soli temperato, che permette l’acquisizione della cittadinanza solo a determinate condizioni, come la residenza stabile nel paese di nascita. Si applica in FranciaGermaniaIrlanda e Regno Unito. In Italia, la parte della normativa vigente che si avvicina di più allo ius soli condizionato è quelle che interviene per evitare i casi di apolidia, che costituirebbero una violazione dell’articolo 22 della Costituzione, cioè quando si nasce in territorio italiano da genitori apolidi, o che non possono trasmettere la cittadinanza secondo la legge dello Stato di provenienza. Ancora, se si è stati abbandonati alla nascita. Con lo ius culturae può acquisire la cittadinanza il figlio di persone di nazionalità straniera che abbia concluso un ciclo di studi nel paese di residenza. Il dibattito su quest’ultima forma di diritto di cittadinanza è iniziato già nel 2004, è andato avanti a fasi alterne senza mai portare a una modifica delle legge del 1992. L’ultimo tentativo, naufragato nel 2017, prevedeva che potesse diventare italiano a tutti gli effetti il bambino nato in Italia da genitori stranieri o arrivato prima di aver compiuto 12 anni, dopo un ciclo di studi di almeno cinque anni.

La politica

Sono tre, per ora, le proposte di legge sull’argomento arrivate in Commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Quella di Laura Boldrini, quella di Renata Polverini di Forza Italia e quella – ma non c’è ancora il testo – di Matteo Orfini del Pd. Il progetto di legge dell’ex presidente della Camera contempla diverse e più larghe modalità di acquisizione della cittadinanza italiana, uno ius soli condizionato e uno ius culturae. Il disegno di legge prevede che può acquisire la cittadinanza italiana sia chi è nato in Italia da genitori stranieri di cui almeno uno è regolare da minimo un anno prima della nascita del figlio, sia chi è figlio di due stranieri di cui almeno uno nato in Italia. In questi due casi spetta al genitore fare la dichiarazione di volontà per il minore, ma pure se ciò non avviene il figlio può fare la richiesta di cittadinanza senza ulteriori condizioni entro i due anni dal raggiungimento della maggior età. Inoltre, dice ancora il testo, il minore straniero nato o entrato in Italia entro i 10 anni che vi soggiorna regolarmente fino a quando diventa maggiorenne può chiedere la cittadinanza. In aggiunta, sempre su dichiarazione di volontà espressa dai genitori o da chi ne ha la responsabilità, può acquisire la cittadinanza il minore figlio di stranieri che ha frequentato un ciclo di istruzione (dalle elementari alle superiori). La proposta Polverini invece introdurrebbe lo ius culturae per chi, figlio di genitori stranieri, è nato in Italia, vi risiede in maniera regolare e ha frequentato le scuole elementari. Questi possono diventare cittadini italiani “mediante dichiarazione resa in qualunque momento”. Un’altra novità del ddl della deputata è l’esame per accertare la conoscenza della lingua, della cultura italiana e delle norme fondamentali del nostro ordinamento per gli stranieri nati in Italia che risiedano legalmente nella Penisola da almeno tre anni prima di aver fatto richiesta. Anche il testo dell’ex presidente dem Orfini propone uno ius soli temperato, requisito per la cittadinanza è l’essere nati in Italia da genitori stranieri di cui almeno uno regolare da un minimo di cinque anni o con il permesso di soggiorno europeo di lungo periodo e riprende la proposta di ius culturae per chi è nato o è arrivato in Italia entro i 12 anni di età e ha frequentato le scuole qui per almeno cinque anni o corsi di formazione professionale.

Cittadini italiani e non: le loro storie

L’attuale legge sulla cittadinanza è passata indenne attraverso quasi tre decenni. Se fosse stata modificata, con l'introduzione dello ius soli o dello ius culturae, forse la vita di molte persone – prima bambini poi ragazzi e ora adulti – sarebbe stata più semplice e felice. Invece per tanti vivere in Italia ha significato legare la propria esistenza a documenti con una data scadenza e l’ansia per il rinnovo dei permessi di soggiorno. Ha significato le file nelle questure e negli uffici immigrazione, l’inchiostro che macchia le dita quando vengono prese le impronte digitali. Ma anche il tempo e i soldi dedicati alle pratiche burocratiche, il senso d’impotenza e la rabbia per non poter fare un viaggio all’estero, votare alle elezioni o partecipare ai concorsi pubblici. Fino al peggiore degli scenari: l’espulsioneIn Terris ha raccolto le storie di giovani uomini e giovani donne, chi con la cittadinanza italiana e chi no, che vivono qui fin da piccoli e chiedono a gran voce che gli venga riconosciuto il loro essere diventati italiani “sul campo”, anche se non è ancora scritto su un pezzo di carta.

“Serve una contronarrazione”

Informare, dare voce, rovesciare una narrazione che mischia gli sbarchi sulle coste italiane alle seconde generazioni, i figli degli immigrati che vivono, studiano e lavorano in Italia. È la missione che si è dato Arber Agalliu, 31enne giornalista di origini albanesi arrivato in Italia, a Firenze, quando ne aveva appena nove e cittadino italiano da un anno. “A fine anni ’90 essere albanesi voleva dire non trovare qualcuno disposto ad affittarti una casa, ricordo che ci siamo ritrovati in 13 in un monocale”, racconta. “La cronaca era piena di sbarchi di migranti albanesi”, prosegue Agalliu “e sono voluto diventare giornalista perché volevo raccontare la mia comunità. Si parlava degli immigrati in un certo modo, ho pensato a una contronarrazione”. Col tempo è diventato collaboratore di Toscana NewsLa Repubblica Albania News. Ha un bel ricordo dei suoi primi anni in Italia, ma non dimentica le ore di scuola saltate per fare le pratiche del rinnovo del permesso di soggiorno. Da anni è impegnato per cambiare le cose. Attivista con l’associazione “Italiani senza cittadinanza”, nata nel 2015, ritiene che per arginare “una narrazione volutamente errata che ha aperto la strada al pensiero xenofobo” serve intervenire anche nel mondo dell’informazione: “Mi batto da anni per avere nelle redazioni persone con un background migratorio”. Per quanto riguarda il dibattito in corso, ritiene che l’Italia non sia pronta per lo ius soli puro ma deve comunque dotarsi di una nuova legge. “Le riforme sulla cittadinanza in Europa son state fatte oltre vent’anni fa, non faremmo altro che metterci in pari”, conclude.

Si parla di diritti

“Non è una questione di destra, di sinistra o di centro, ma della vita delle persone”. Quando ci sono di mezzo i diritti, i particolarismi dovrebbero essere messi da parte. Olga Bibus, giornalista di Open, quotidiano online fondato da Enrico Mentana, spera che la politica capisca che è arrivato il momento di ampliare il ventaglio delle modalità per prendere la cittadinanza. Ma non si illude: “Vedo poca convinzione”. È’ in Italia da più di vent’anni, quando ne aveva appena 7 ha raggiunto la madre in provincia di Caserta. La donna era dovuta partire dal loro paese d’origine, l’Ucraina, dopo aver perso il lavoro in seguito alla caduta dell’Unione sovietica. Con i conti correnti bloccati, l’unica possibilità era approfittare della riapertura dei confini per cercare lavoro all’estero. Dopo la Campania, madre figlia e fratello minore si trasferiscono a Pesaro. Ma Olga non si ferma. Dopo il liceo frequenta l’università a Bologna e si laurea in Lettere, torna nelle Marche per la scuola di giornalismo, infine arriva a Milano per lavoro. Conosce le città, la lingua, la cultura e il cibo italiano ma non è ancora riuscita a ottenere la cittadinanza. “Ho fatto la domanda nell’ottobre del 2015, allora i tempi minimi per la procedura erano due anni ma con il decreto Salvini – decreto del 4 ottobre 2018 convertito in legge a fine novembre dello stesso anno – sono saliti a quattro”, spiega. Dopo tutto questo tempo, è ancora vincolata alla validità dal permesso di soggiorno. Con tutte le difficoltà che comporta: “Quest'estate non sono potuto andare in Grecia, avevo il permesso scaduto e non mi era consentito viaggiare nell’area Schenghen”. I problemi non sorgono solo sotto il profilo degli spostamenti, ma anche in quello delle opportunità di lavoro: “Non posso partecipare a tutti  i concorsi pubblici, dipende quali requisiti sono richiesti nel bando. Quello di Mediaset a cui ho preso parte non accettava persone con il permesso scaduto. Ho dovuto sollecitare per il rinnovo e per fortuna ho incontrato persone di buonsenso che hanno capito la situazione”.

Rischio espulsione

Se nel nostro Paese lo ius soli – anche temperato – o lo ius culturae fossero stati introdotti prima, non ci sarebbe chi corre il rischio di essere espulso. O è già stato destinatario di un foglio di viaLuca Neves racconta la sua storia di figlio di immigrati capoverdiani, nato a Roma 31 anni fa e classificato come irregolare dalla Questura perché senza permesso di soggiorno né cittadinanza italiana. Una storia già raccontata negli anni da testate come Avvenire, ma che nelle ultime settimane si è arricchita di nuovi particolari. Partiamo dall’inizio. “Sono nato a Roma l’8 gennaio 1988, in questa città sono cresciuto e sono andato a scuola. A Capo Verde sono stato pochi giorni in vacanza a 6 anni, nel 1994” , spiega. I problemi cominciano quando diventa maggiorenne. “Dopo i 18 anni non ho più rinnovato il permesso perché volevo chiedere la cittadinanza”. Ma presenta la documentazione in ritardo e la sua richiesta non viene accettata. Lo racconta lui stesso: “A 18 anni chiedo come fare la domanda, mi dicono di portare diversi documenti, come l’estratto di nascita. Raccolgo tutto nel giro di in un anno e a 19 anni e un mese vado a consegnarlo. Ma allo sportello mi dicono che avevo superato di un mese i termini per presentare la domanda e non si è potuto fare più nulla”. Luca nel frattempo, con un diploma all’istituto alberghiero, cerca lavoro come cuoco e porta avanti la carriera da cantante rap. Nel 2012 viene raggiunto da un primo provvedimento di espulsione, il foglio di via. Gli anni passano segnati da lutti in famiglia, con la morte della madre e di uno dei suoi tre fratelli. Nell’estate 2019 Luca fa domanda per il permesso di soggiorno, ma la situazione non migliora. “Il 19 settembre ho un appuntamento alle 10 del mattino all’Ufficio immigrazione a Tor Sapienza, a Roma. Quando si sono accorti del foglio di via, prima ne hanno fatto un altro in cui c’è scritto che sono nato a Capo Verde, poi mi hanno trattenuto diverse ore, dalle 11 alle 20:30, in una stanza di sicurezza”. Dopo il rilascio, gli viene notificato anche l’obbligo di firma in attesa dell’espulsione. Con il suo avvocato Alì Listì Maman fa ricorso e il giudice di pace invalida l’obbligo e il ritiro del passaporto, mentre il legale si prepara a impugnare l’espulsione, sempre dal giudice di pace, e al Tribunale di Roma la domanda di coesione familiare, una sorta di ricongiungimento all’interno dello stesso territorio, per stare con il padre. Se i ricorsi vengono ammessi si può chiedere la sospensiva del provvedimento d’espulsione, ma in merito si dovrà esprimere il giudice.

Ognuno è tante cose diverse

“Non poter votare mi fa sentire come se la situazione del paese non mi riguardasse o la mia opinione non contasse”, dice Nebat Abdu mentre parla dei limiti che restringono il campo di partecipazione alla vita pubblica di chi non ha la cittadinanza italiana. Studentessa di giurisprudenza a Bologna alle prese con la tesi di laurea, è arrivata in Italia 18 anni fa da Addis Abeba, la capitale dell’Etiopia. Aveva 10 anni e insieme alla madre e ai fratelli minori aveva ottenuto il ricongiungimento familiare con il padre che era arrivato come rifugiato politico tre anni prima. All’atterraggio all’aeroporto, a Roma “mi sono sentita come se fossi la protagonista di quello che vedevo in tv” racconta la giovane, che aveva visto immagini dell’Italia sui canali del piccolo schermo. Dopo un primo periodo di circa tre anni nella capitale, lei e la sua famiglia si trasferiscono in Nord Italia. Precisamente a San Giacomo, in provincia di Mantova, dove ai tempi del liceo era l'unica studentessa straniera. Nei suoi anni di scuola dell’obbligo Nebat non ha subito nessun episodio di discriminazione. “Nelle realtà piccole si sta meglio perché la gente del posto ha modo di conoscerti come persona”, spiega. Non è riuscita a prendere la cittadinanza perché quando il padre ha fatto richiesta e l’ha ottenuta, lei era già maggiorenne. Così lei e la madre sono le uniche in famiglia non ancora italiane. Nemmeno in seguito ha potuto fare domanda, in mancanza del requisito economico. Per questo si è trovata anche in situazioni al limite dell'assurdo: “L’ultima volta che sono andata in Etiopia avevo con me la ricevuta del permesso di soggiorno, non l’originale. Non mi hanno voluto far partire, così sono dovuta andare all'ambasciata e fare il visto turistico per rientrare nel paese dove vivo ”.  In passato non ha avuto la possibilità di fare delle esperienze di studio all’estero, ma anche il futuro presenta delle incognite – almeno finché non troverà il modo di diventare ufficialmente italiana – : “I concorsi pubblici, come quelli per la magistratura, o la carriera diplomatica hanno come requisito la cittadinanza”. Nel tempo però la società civile, osserva, si è aperta verso le seconde generazioni, mentre la politica non ha ancora fatto concreti passi avanti. Se le viene chiesto a quali radici si senta più attaccata, se quelle etiopi o quelle italiane, la risposta è: “Le persone sono sempre tante cose in una, ma di sicuro mi sento al 100% sangiacomese”.

Chi è italiano è europeo

Ecco la storia di un ragazzo straniero diventato italiano grazie allo ius sanguinis, Nikita. “Ho ottenuto la cittadinanza a 14 anni. Mia madre ha lasciato la Russia dopo il divorzio e una volta in Italia sia è risposata”. Nikita Lobanov si definisce “russognolo”, per via delle sue origini e della terra che è diventata casa sua, l’Emilia Romagna. Vive a Forlì, dopo le superiori ha studiato all’università di Bologna laureandosi in Scienza politiche e adesso, a 28 anni, è alle prese con un dottorato. Ne è passato di tempo da quando era legato, come tanti altri, al permesso di soggiorno. “Ho ricordi sbiaditi dei miei primi anni in Italia”, racconta. “Mi ricordo le lunghe attese in Questura, dove mi facevano compagnia libri e letture”. Non c’era solo la barriera burocratica tra le sue origini e la sua nuova casa, bensì anche quella linguistica. “Alle medie ero sempre seduto con altri compagni e compagne cinesi, rumeni, albanesi. Non ho dimenticato l’imbarazzo che provavo mentre cercavo le parole giuste in italiano”. Il nuovo status e il tempo lo aiutano ad integrarsi tanto che oggi, in tempi attraversati dall’euroscetticismo, ha scelto di intraprendere un periodo di studi all’estero all’Università cattolica di Lovanio, in Belgio, per una ricerca. “Un’esperienza che sottolinea la dimensione europea della cittadinanza italiana. Chi riesce a diventare italiano diventa un membro della grande famiglia europea”.

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