La speranza fa vivere, ma come su una corda tesa” recitava il filosofo Paul Valéry. In tanti ospedali queste corde tese sono fatte degli sguardi di bambini, adolescenti e giovani che si preparano a lottare contro il cancro. La Giornata mondiale contro il cancro infantile, che si celebra oggi, e promossa dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, vuole sensibilizzare l'opinione pubblica su tutti i piccoli che nella vita si sono trovati ad affrontare un problema inaspettato, inclusa la dimensione familiare, dove gli esiti infausti della diagnosi sono avvertiti come un fulmine a ciel sereno.
I numeri
Sono oltre 300mila i bambini e gli adolescenti che ogni anno ricevono uan diagnosi di tumore nel mondo. Guardando all'Italia, nello specifico, se ne contano 2.400 tra bambini e adolescenti. Sebbene sia migliorato di tanto il cammino di cura e guarigione per gran parte delle neoplasie, soprattutto leucemie e linfomi, il cancro rimane la seconda causa di morte nei bambini dopo le malattie infettive. La mortalità è, dunque, ancora elevata e risente di un gap sociale fra nord e sud del mondo: nei Paesi cosiddetti “ricchi”, la percentuale di guarigione si attesta all'80%, mentre nel Sud del mondo si scende al 20%, con una riduzione delle diagnosi tempestive e il mancato accesso a terapie d'eccellenza.
Un punto di riferimento
Per un oncologo pediatra, seguire il percorso di guarigione e cura del proprio paziente implica anche un coinvolgimento personale. Per i bambini e gli adolescenti, il medico rappresenta un punto di riferimento essenziale. I ragazzi, in particolare, preferiscono coltivare un rapporto diretto col camice bianco, bypassando i genitori. “Anche perché non si deve dimenticare che si tratta di adolescenti” sottolinea Sabina Vennarini, radiologa, radioterapista, oncologa pediatrica e dirigente medico presso il Centro Protonterapia di Trento. Interris.it l'ha intervistata.
Dott.ssa Vennarini, a che punto siamo nella ricerca per la cura del tumore infantile?
“I progressi scientifici sono importanti in tutti i tipi di neoplasie, come dimostrano gli esiti della ricerca in questi anni. Finora ci si era concrentrati sull'adulto, vista la diversa numerosità del cancro pediatrico. Finalmente, però, anche il mondo pediatrico oncologico vede una multidisciplinarietà talmente spinta che c'è molta collaborazione. Oggi possiamo dire che la sopravvivenza a lungo termine dei bambini è aumentata. Va detto che non tutte le neoplasie sono guaribili, ma possiamo approntare una cura”.
Quali sfide si trova ad affrontare un piccolo malato?
“La sfida del piccolo è rappresentata dall'interruzione violenta della quotidianità. Improvvisamente, in un bambino che cresce, si sviluppa e comincia ad abbracciare la progressiva crescita, un evento così impattante pesa molto. Non penso soltanto ai bambini piccoli, ma agli adolescenti, che già vivono un periodo conflittuale per loro natura: in loro questa violenta interruzione della quotidianità ha risvolti psicologici traumatici”.
In quali ambiti?
“Penso alla perdita dei capelli per molti di loro. L'adolescente è il paziente più fragile, perché non ha ancora sviluppato quell'autonomia che ha, invece, un uomo nella sua piena maturità. Il bambino, invece, si trova a soffrire fisicamente e psicologicamente, e questo impatta inevitabilmente sul nucleo familiare. Ai miei colleghi ripeto sempre: 'Noi non abbiamo solo la cura del bambino, ma la presa in carica di tutta la famiglia”.
E quali sfide si trova ad affrontare, invece, un oncologo pediatra?
“L'obietivo primario è l'accoglienza. Dico spesso che, se questa fallisce, in un terzo dei casi fallisce anche la cura. I colloqui con la famiglia sono difficili, la presa di coscienza che il proprio figlio sia malato richiede tempo. Per questo non amo fare un'accoglienza unica, ma do tempo alla famiglia di metabolizzare. La sfida di un oncologo pediatra è prendere per mano tutto il nucleo, altrimenti 'si ammala' tutta la famiglia”.
Che rapporto si crea, in particolare, con gli adolescenti?
“Un rapporto unico, personale. L'adolescente ha bisogno di un contatto diretto, come il numero di telefono, messaggia via whatsapp, perché sente nel medico uno con cui attivare una relazione. Da parte sua, l'emotività dell'oncologo pediatra non va racchiusa, è molto difficile mettere una barriera che protegge il professionista dal paziente”.
Ricorda una storia, in particolare?
“Ho avuto la fortuna di prendere per mano un adolescente che iniziò un percorso di cura in un'altra sede, ma il contatto fra noi fu sempre speciale. a Trento non eravamo ancora pronti per fare la radioterapia protonica, ma lei mi chiese comunque di affiancarla nel suo iter terapeutico – venne fuori una collaborazione a 360 gradi con lei che passo passo mi informava. Un bel percorso che, però, ha avuto una ricaduta. Lei, allora, ha eseguito un trattamento da me e dopo circa un mese si è laureata. Ho partecipato della sua vita. Non sono più solamente colei che la segue nella sua malattia, ma un filo conduttore di affetto infinito. La cosa che mi ha fatto piacere è che ha scelto una professione che riabbracciava il suo percorso, diventando infermiera. Questo è quello che può succedere. È una storia che mostra come la vita di un giovane paziente oncologo, quando è accolta bene, può e deve continuare”.
Cosa si sente di dire alle famiglie che ricevono un esito nefasto?
“L'unica cosa che mi sento di dire è che devono restare uniti. Molto spesso il dolore può anche dividere, ma va loro ricordato che i portagonisti delle loro storie non sono i genitori, ma i bambini. La sofferenza può essere vissuta a giorni alterni: quando mamma si dispera, papà è in equilibrio, e viceversa. Questo crea tanta impotenza, e si può superare solo vivendo il quotidiano. Solo l'amore, la speranza, la fiducia, l'unione possono essere il requisito finale di un cammino di questo genere. Ognuno può reagire in questo modo, ma le famiglie devono fortificarsi perché non possono permettersi falde di allontanamento”.