“Nessuno usi la religione a fini di voto”: questa la sentenza emessa dalla Corte suprema indiana in merito all’utilizzo del proprio credo, da parte dei politici, al fine di ottenere un numero superiore di votanti alle elezioni. Un pronunciamento che rappresenta una novità assoluta in India dove, al netto di una costituzione volta alla tutela di tutti i cittadini, senza distinzioni fra minoranze e maggioranze etnico-religiose, un altro decreto emanato dalla stessa Corte, nel 1995, riconosceva l’hindutva (o “induità”, la forma di induismo predominante in India) come uno stile di vita, piuttosto che una religione. La decisione del più alto organo giurisdizionale dello Stato peninsulare, costituisce dunque il primo tentativo di scardinare questa assodata prerogativa, in vista delle elezioni che, nel 2017, interesseranno ben 5 stati.
L’esito della votazione, ha visto tre voti contrari e quattro favorevoli, ed è stata accolta in modo particolarmente favorevole dalle minoranze locali le quali, in virtù di questa, possono aspirare a una maggiore equità elettorale: a partire dalle prossime campagne elettorali, infatti, qualunque politico tenti di procacciarsi voti perpetrando motivazioni a sfondo religioso, di casta o di comunità, adotterà una “pratica corrotta”. Come stabilito dai giudici, infatti, “l’esercizio del voto è una pratica laica, mentre il rapporto tra l’uomo e Dio è una scelta individuale. Allo Stato è proibito chiedere fedeltà in una simile attività”. Recentemente, ossia in occasione delle elezioni politiche del 2014 (le ultime, finora), lo stesso primo ministro, Narendra Modi, utilizzò più o meno direttamente, la sua fede induista come punto di forza, creando un precedente politico e “indebolendo il tessuto sociale laico della nostra repubblica”, come sostenuto da Ram Puniyani, presidente del Center for study of society and secularism di Mumbai.
Qualche dubbio, però, resta: la nuova sentenza, in effetti, non si esprime direttamente in merito al precedente pronunciamento il quale, di fatto, andava indirettamente a favorire la pratica dell’hindutva per fini politici: a conti fatti, un’eventuale applicazione di tale metodo non potrebbe, nel caso, incontrare un ostacolo normativo. Una situazione che lascia più di qualche perplessità, come testimoniato da John Dayal, giornalista e attivista cattolico, all’Agenzia fides: “Il giudizio della Corte Suprema dell’India sembra incompleto in quanto lascia aperta l’opportunità di mischiare religione e politica, dato che non delegittima apertamente il verdetto a favore dell’hindutva”. Fermo restando sulla portata storica della sentenza, la questione presenta ancora qualche punto debole, legato, oltre che alle osservazioni sulla mancata chiarezza in merito sul decreto del 1995, sulle possibilità che questa decisione venga davvero applicata, spodestando una tradizione storica protrattasi fino a oggi. D’altronde, il banco di prova delle elezioni non è molto lontano: in quell’occasione, probabilmente, il quadro della situazione potrà apparire più chiaro.