La vita delle vedove indù non è mai stata facile. Fin dal Cinquecento, infatti, Chaitanya Mahaprabhu, l'uomo che si è contraddistinto nella riforma sociale del Paese, denunciò lo stato in cui versavano le donne senza consorte, quasi abbandonate a se stesse e sottoposte alla pratica della Suttee, una sorta di suicidio legalizzato per le donne sole. L'emarginazione sociale a cui sono sottoposte le vedove dell'India è soprattutto evidente nel nord del sub-continente e, nello specifico, nello stato del Vrindavan. Qui, però, grazie all'usanza religiosa di consacrazione delle donne al dio Krishna, molte di loro hanno saputo reinventarsi. Ciò non ha escluso lo stigma che le ha contraddistinte da sempre: alcune di loro sono costrette a chiedere l'elemosina, altre perdono la casa e spesso muoiono dimenticate, come ha di recente denunciato India TV news. Stando ai dati riportati dai quotidiani locali come The Hindu, 40 milioni di vedove indiane sono espulse dalle loro case.
Vedove indiane vestite con sari colorati pregano al mattino in un tempio vicino Krishna Kutir – Foto © Rebecca Conway per The New York Times
Lotta per la giustizia
Il desiderio e la sete di giustizia per tali donne emarginate ha preso, negli anni, la forma di petizioni pubbliche e di sentenze giudiziarie. Tappa fondamentale è stata la sentenza emessa dalla Corte Suprema indiana nel 2012, la quale si è pronunciata sulle disparità economiche e sociali della popolazione invitando il governo indiano a fornire loro cibo, cure mediche e condizioni dignitose di vita. Dal 2012, l'esecutivo indiano ha approntato soluzioni concrete per il bene delle donne. Tra i progetti, la Krishna's House, la casa d'accoglienza delle vedove, che spesso giungevano in condizioni di assoluta povertà e di salute precaria. Molte donne sono state riabilitate, altre hanno ripreso possesso di una dignità perduta, anche se le tracce del maltrattamento restano in tante di loro sotto forma di cicatrici indelebili. Come ha mostrato un'inchiesta del quotidiano statunitense The New York Times, solo dopo molto tempo alcune di loro hanno dismesso il sari bianco, abito distintivo della condizione di vedovanza, per indossarne di altri a tinte più colorate. Progetti governativi come Krishna's House testimoniano l'importanza di un processo di riappropriazione della propria identità.
Una momento della colazione nella casa d'accoglienza Krishna's House – Foto © Rebecca Conway per The New York Times
La lunga strada verso casa
Nonostante i traumi, molte donne esprimono il desiderio di ritornare nei loro luoghi natii. È il caso di Kali Dasi, una donna 75enne, intervistata dal giornalista statunitense Kai Schultz, che ha cercato di riconciliarsi con la sua famiglia: “La mia mente mi dice una cosa, ma il cuore un'altra” ha detto. E così, dopo anni di accoglienza, la donna non teme di scontrarsi con un passato fatto di esilio pur di riconciliarsi con un luogo che, nonostante tutto, rappresenta il suo grembo. Per molte di loro, però, non è facile. Le donne vedove, emarginate dalla loro famiglia originaria, sono maltrattate da quella acquisita. In tanti loro volti sono nettamente leggibili le cicatrici di soprusi e violenze. Anche quando alcuni stretti affetti si ribellano a questa consuetudine e cercano di liberare le donne segregate, cercano di allontanarle ed isolarle. Maneka Gandhi, ex-ministro che si batte per i diritti delle donne indiane, ha dichiarato che c'è molto da fare per migliorare le loro attuali condizioni. Basta vedere i lampi di luce in molte di loro nello svolgere pratiche quotidiane o abbigliarsi i capelli di fiori per capire che una rinascita è possibile.
Kali Dasi, 75 anni, che desidera riconciliarsi con la sua famiglia – Foto © Rebecca Conway per The New York Times