Morire con dignità per chi è nella fase terminale della malattia significa il diritto a un’assistenza rispettosa”, sostiene su Vita pastorale il gesuita padre Francesco Occhetta, firma politica di Civiltà Cattolica. “Al Parlamento era stato dato un anno di tempo per regolare il tema del suicidio assistito, ma il suo immobilismo ha imposto ai giudici della Corte costituzionale di regolare il caso particolare di Cappato, facendolo diventare una norma generale”. Così è stata introdotta una scriminante all’articolo 580 del Codice penale sull’istigazione e l’aiuto al suicidio, che puniva senza condizioni chi avesse aiutato una persona a mettere in atto la sua decisione di porre fine alla propria vita.
Sostegno vitale
“La Corte ha escluso la pena quando ricorrono quattro circostanze rigorose e stringenti”, sottolinea padre Occhetta. E cioè “un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che reputa intollerabili ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. La norma non è auto applicabile, è un dispositivo, sarà il Servizio sanitario nazionale ad accertare come garanzia queste quattro condizioni. La scelta. Secondo il gesuita, evita che l’eutanasia rientri nel gesto di cura e che cliniche private, come quelle svizzere, possano costruire un grande business intorno al “fine vita”. C’è un però. “La Corte ha chiesto al Parlamento di intervenire rapidamente, perché è cosciente di aver creato una crepa in una diga che potrebbe esplodere e cancellare con il tempo le condizioni restrittive imposte secondo l’antico principio de iure condendo – evidenzia padre Occhetta -. La Cei, prima dell’estate, aveva proposto al Parlamento di ridurre le pene senza depenalizzare il gesto, dopo la sentenza ha chiesto di prevedere l’obiezione di coscienza dei medici. Il M5S insieme a parte della sinistra tendono ad appoggiare la cultura del suicidio assistito per arrivare all’eutanasia”. Si chiede il gesuita: “Qual è il valore primo: rafforzare una relazione e i legami sociali o esaltare l’autonomia dell’individuo? Una cultura democratica che si dice liberale (e non liberista) e basa il fondamento della libertà sulla responsabilità verso l’altro, è chiamata a far crescere personalizzazione e umanizzazione della medicina insieme alla tecnicizzazione della medicina sempre di più concentrata sull’azione del“curare”(to cure) la malattia e sempre meno su quella del prendersi cura (to care) del mondo affettivo, relazionale, psicologico e spirituale del paziente”.
Aiuto concreto e possibile
Altrimenti, l’invasività della tecnica non prepara il paziente a consegnarsi alla morte, ma a liberarsi dall’ultimo laccio che lo intrappola a una macchina. “Non è questo un paradosso?”, si interroga padre Occhetta: “Morire con dignità significa per la persona malata nella fase terminale della malattia il diritto ad un’assistenza rispettosa che risponda ai bisogni assistenziali della sua dimensione biofisica, ma anche a quelli delle sue dimensioni biografiche, come quelle psicologiche e spirituali”. Il presupposto antropologico, secondo il gesuita, è “il significato più ampio di salute, che dal latino salus richiama la salvezza”. Eppure, gli elementi per un dibattito maturo in Parlamento ci sarebbero tutti, non si controlla la morte attraverso la “cultura”, pensando di ignorare la “natura” con le sue leggi.
Un modello alto
“L’orizzonte antropologico per rispondere alla cultura del suicidio assistito deve essere quello della solidarietà e dell’aiuto concreto e possibile: la guarigione può solo essere interiore quando il corpo si sgretola – afferma padre Occhetta -. È questa la sfida del Parlamento: garantire sia la cura e la relazione data nel morire sia l’aiuto concreto alle famiglie. Per i credenti c'è, poi, una responsabilità in più: testimoniare una concreta vicinanza d'amore per rendere eterna la vita del morente. Fino a quando le forze politiche non si spingeranno alla fonte in cui nasce il tema, siamo destinati a essere paralizzati dai detriti portati alla foce come le fazioni ideologiche e gli interessi particolari”. Più i temi sono complessi, più servono modelli alti. In Terris propone per i temi bioetici l’esempio di Albino Luciani, sulla scia di quanto documentato dalla vice-postulatrice della Causa di beatificazione, Stefania Falasca e il cardinale Beniamino Stella, originario della diocesi di Vittorio Veneto della quale fu vescovo il futuro Giovanni Paolo I. Cercava il buono negli altri. Sua nipote Lina Petri, figlia di Antonia Luciani, l’unica della famiglia a vedere Albino Luciani sul letto di morte ha raccontato l’udienza del 2 settembre 1978. Ai suoi familiari il Papa disse: “State tranquilli perché non ho fatto niente per arrivare fin qui, quindi state tranquilli voi come sto tranquillo io”. Un episodio è significativo del suo limpido atteggiamento pastorale. Autunno 1975: erano i primi giorni di novembre, un giorno dopo l’uccisione di Pier Paolo Pasolini. Gli telefonò l’arcivescovo di Udine, monsignor Alfredo Battisti, per chiedere un consiglio sull'opportunità o meno di celebrarne i funerali religiosi. Le circostanze della morte erano considerate scandalose ma Albino Luciani disse: “La sua condotta di vita lasciamola al giudizio del Signore. Tutti noi, nessuno escluso, abbiamo bisogno della Sua misericordia”.
Salvare il buono
Aveva questo criterio di valutazione: prima di tutto non condannava, ma salvava il buono. Non amava lanciare anatemi. E questo limpido atteggiamento pastorale lo aveva anche da cardinale quando battezzava i figli di coppie irregolari. E Albino Luciani spiegava: “Certo, il papà e la mamma non sono per la Chiesa una coppia regolare, ma il figlio non ha colpa e non per questo gli posso io negare la grazia di Dio. Devo chiedere ai genitori che si impegnino ad educarlo cristianamente e questo lo possono fare, anche nella sofferenza di non essere a posto. Il resto lo lascio alla misericordia di Dio”. Giovanni Paolo I è il ritratto del buon pastore che offre la vita per il suo gregge. Colpisce la semplicità del linguaggio col quale desiderava annunciare il Vangelo a tutti. Per capire Papa Giovanni Paolo I bisogna partire da un dato: per 11 anni è stato vescovo di una piccola diocesi come Vittorio Veneto. E’ un Pontefice, cioè, che arriva dal basso, dalla provincia ed è da lì ha tratto il suo stile umile e sobrio, oltreché il suo tratto amabile e cordiale. Salito al Soglio di Pietro, rimase una persona semplice che non amava apparire, un Pastore buono e attento che incarnava la mitezza evangelica. La vita di Albino Luciani si snoda tra gli anni bellunesi (dalla nascita fino al 1958), la fase dell’episcopato a Vittorio Veneto prima e a Venezia poi, e infine il breve pontificato: 33 giorni spezzati dallo shock della sua morte improvvisa, il 28 settembre 1978. In conclave fu scelto per la semplicità e la vicinanza al popolo. Nei 33 giorni sul Soglio Di Pietro fu l’immagine viva di Cristo buon pastore. I 33 giorni del pontificato bastarono perché Albino Luciani colpisse l’opinione pubblica. Giovanni Paolo I conquistò il cuore del Popolo di Dio per la sua genuinità, la chiarezza del linguaggio, il sorriso cordiale che era espressione della sua naturale empatia. Il suo desiderio era quello di essere il buon pastore che cerca di raggiungere ogni pecora del suo gregge per condurla ai pascoli verdi della vita divina. Voleva che tutti comprendessero e sentissero il Vangelo più vicino all’uomo e alle preoccupazioni di ciascuno. Per questo usò un linguaggio semplice e immediato che gli procurò da subito l’affetto del Popolo di Dio. Di Giovanni Paolo I resta la bellezza della sua figura, la spiritualità radicata nella semplicità dell’educazione cristiana ricevuta, la generosa dedizione alla Chiesa, la sobrietà del tratto e la virtù dell’umiltà che lo contraddistingueva.