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Il conservazionismo che ferisce l'Africa

L'Africa mi toccĆ² l'animo giĆ  durante il volo: di lassĆ¹ pareva un antico letto d'umanitĆ ”. Lo descrisse cosƬĀ Saul Bellow, sbirciando dall'oblĆ² del suo aereo, il Continente nero che iniziava ad aprirsi sotto di lui, diventando qualcosa in piĆ¹ che una massa indistinguibile di terra emersa. La linea frastagliata della Rift Valley, simbolo della Terra vergine, gli anfratti della gola di Olduwai, dove nacque l'umanitĆ  di cui parlava il Premio Nobel canadese nel 1970, e giĆ¹, in ogni direzione, fra savane sconfinate e foreste pluviali attorno ai bacini del Congo e del Niger. Per qualcuno che bramĆ² di visitarla, l'impatto per gli occhi e per il cuore fu quasi insostenibile, tanto da voler costruire la sua vita fra le praterie essiccate dal sole del Kenya, piuttosto che in una movimentata cittĆ  al di sopra dell'Equatore. C'ĆØ tanto in Africa, tanto per cui lavorare e per il quale vale la pena spendere se stessi. In prima persona magari, forti della memoria storica che vide questo Continente terreno fertile non per piante da frutto o cereali, maĀ per “zuffe” in nome dell'espansionismo politico. Una macchia d'olio resistente a ogni trattamento, che non tenne allora conto di chi davvero aveva voce in capitolo su quei territori. Tempi superati, forse, ma il peggio, in apparenza, non ĆØ tanto lo scotto che l'epoca coloniale ha lasciato in ereditĆ Ā agli indigeni africani, quanto la sottile ma micidiale politica del colonialismo 2.0. CiĆ² che ieri era una controversa interpretazione dell'espressione kiplyingianaĀ “il fardello dell'uomo bianco”, oggi ĆØ una discutibileĀ forma di conservazionismo che, in troppi casi, non tiene conto di un fattore fondamentale: la preservazione dei popoli ancestrali delle terre che si vuole proteggere.

Uno “sfratto psicologico”

I due concetti vanno di pari passo, e in qualche modo lo sottolineava giĆ  san Francesco nel passo d'apertura del Cantico delle Creature:Ā “Cum tutte”, diceva il Poverello di Assisi.Ā Piante, animali, terra… ma anche l'uomo. La dottoressa Fiore Longo ĆØ un'antropologa, ricercatrice di Survival International, da anni impegnata nella protezione dei popoli del bacino del Congo, dove la depressione centrafricana lascia libera crescita alla foresta pluviale, fornendo dalla notte dei tempi vita e sostentamento all'etnia Baka, appartenente al piĆ¹ ampio gruppo di popolazione nativa notaĀ sotto la controversa denominazione diĀ “pigmei”. Loro vivono in piccoli villaggi, piĆ¹ che altro una base operativa lungo le strade al limitare degli alti fusti: la loro vita ĆØ nella foresta, fra quegli alberi cheĀ per primiĀ hanno interesse a conservare, e che oggi corre il rischio di lasciar posto a una realtĆ  che, in nome della preservazione, rischia di estromettere i baka dai territori dei loro padri: “La logica ĆØ quella dei parchi naturalistici – ha spiegato la dottoressa Longo -: in sĆ© sarebbe un'idea buona se non fosse che l'istituzione di una riserva nella foresta sortisce un impatto fortissimo su tali popolazioni, per i quali questi luoghi non rappresentano solo una fonte di sostentamento ma hanno anche un valore religioso, spirituale. Ecco perchĆ© possiamo parlare innanzitutto di uno 'sfratto psicologico'”.

Trattati da bracconieri

L'istituzione dei parchi nei territori dei baka (come in quelli abitati da altre etnie, non solo nel Congo-Kinshasha ma anche in altri Paesi com il Camerun) significa innanzitutto una sensibile riduzione della loro libertĆ  di movimento all'interno della foresta, dove trascorrono gran parte delle loro giornate, in nome di una complessa logica di salvaguardia che vede nella loro attivitĆ  (infinitesimale rispetto a qualsiasi altro tipo di interazione) dei risvolti dannosi per l'ambiente: “Il problema ĆØ che gli enti che istituiscono queste aree protette identificano i baka esclusivamente come cacciatori, ignorando la loro ben maggiore, oltre che piĆ¹ importante,Ā attivitĆ  di raccolta. Questo tipo di interazione uomo-foresta non ha solo consentito a questa popolazione di sopravvivere ma anche di mantenere inalterato l'ecosistema di questi ambienti, ad esempio preservando alcune specie di piante o mantenendo competenze superiori a quelle di qualsiasi ricercatore sulle specie animali e vegetali che li abitano. Loro sono i primi ad avere interesse affinchĆ© queste zone siano tutelate. La cura di un particolare tipo di arbusto, ad esempio, ha contribuito la sopravvivenza del raro elefante delle foreste”.Ā Circostanza non certo secondaria in un contesto in cui il commercio illegale di avorio ha ridotto a numeri estremamente ridotti la popolazione dei pachidermi. Estrazione di avorio di cui in alcuni casi, come raccontato all'antropologa da alcuni esponenti di questa popolazione,Ā sono stati pretestualmente accusati gli stessi baka, i quali provvedevano invece alla raccolta di polvere d'oro.

Abusi di potere

Questo, perĆ², non toglie che l'istituzione dei parchi, frutto di accordi fra enti (ad esempio alcune ong) e governi locali, bypassi nella maggior parte dei casi il consenso libero e informato di questi popoli: “Un altro problema ĆØ che, assieme al Parco, arrivano i guardaparco. Persone armate che hanno ufficialmente il compito di sorvegliare il perimetro per scongiurare episodi di bracconaggio ma che, nei confronti di baka, si rendono autori di veriĀ e propri episodi di abuso di potere. Alcuni indigeni hanno raccontato che, nel migliore dei casi, tali guardiani si limitano a bruciare gli utensili di raccolta una volta individuati i loro possessori all'interno dell'area protettaĀ (un danno comunque incalcolabile per loro, che non possono permettersi acquisti continui, per esigenze economiche e distanza da veri e propri centri abitati, ndr); in altri casi, li picchiano con i machete e li arrestano, anche se la Polizia non puĆ² trattenerli in quanto non riscontra mai reati. Il punto ĆØ che un parco sospende qualsiasi tipo di attivitĆ  al suo interno, senza considerare quanto queste popolazioni abbiano voce in capitolo, oltre che necessitĆ  urgenti di soddisfare i loro bisogni interagendo con l'ambiente che li circonda: il risultato ĆØ un progressivo allontanamento dalla foresta, uno sfratto in nome di un conservazionismo che noi chiamiamo colonialista ma anche razzista”.

Attenzioni distolte

Una situazione che, indirettamente (ma non troppo) svia l'attenzione da problematiche ben piĆ¹ gravi della semplice raccolta, come la deforestazione o la corruzione, che a sua volta apre la strada alla rete dei bracconieri, “finanziata proprio da questo giro. In piĆ¹, le compagnie del legno stanno procedendo a un disboscamento sistematico: i baka sono visti come dannosi per questi ambienti con le loro attivitĆ  nella foresta ma per loro tagliare un albero sarebbe qualcosa di impensabile. Si tratta di un intero sistema che non funziona, esso sƬ dannoso per queste popolazioni. E il problema maggiore ĆØ che per noi, inconsapevoli di quanto accade, questo resta un modello positivo, o quantomeno animato da ottime intenzioni”. La campagna a favore dei baka, la dottoressa Longo l'ha definita “la piĆ¹ difficile combattuta in Africa da Survival”, proprio perchĆ© coinvolge enti importanti nei maggiori Paesi d'Europa, oltre che nei governi locali. Per gli stessi baka ĆØ complicato fare rimostranze per gli sfratti subiti, nonostante l'attivitĆ  di alcune organizzazioni in loro favore. L'impressione latente ĆØ che le politiche colonialiste, ritenute superate da oltre mezzo secolo, da queste parti sembrano sopravvivere sotto nuovi nomi e nuove forme: “Basti pensare che i baka identificano i guardaparco con il nome portoghese 'chicote', 'frusta'Ā in italiano, lo stesso utilizzato per identificare i colonialisti del passato. E' triste pensare che organizzazioni esterne all'Africa ritengano di conoscere la foresta meglio dei popoli che la abitano da millenni, e grazie ai quali ĆØ riuscita a conservarsi”.

Una missione

Per i baka, ma anche i bayaka e altre etnie pigmee, questo ambiente rappresenta la vita nel senso piĆ¹ elementare di questa parola: interazione pacifica, intelligenza nel trarre da esso solo lo stretto necessario alla sopravvivenza, probabilmente in modo piĆ¹ accurato di qualsiasi politica sostenibile: “Noi abbiamo una grande responsabilitĆ  – ha concluso la dottoressa Longo -, poichĆ© spesso ĆØ nei nostri Paesi che enti e istituzioni finanziano tutto questo. Il nostro compito ĆØ innanzitutto educare e sensibilizzare su questi temi e, successivamente, porre governi e organizzazioni vari davanti alle responsabilitĆ . E' una battaglia difficile non solo per i baka ma anche per altre realtĆ  come le popolazioni indiane nella Riserva delle tigri di Amrabad”. Uno scenario sul quale vale la pena di porsi qualche domanda, a cominciare dal perchĆ©, dietro l'apparente volontĆ  di preservazione, i primi (e probabilmente gli unici) a rimetterci siano i popoli indigeni. Una ferita sul volto dell'Occidente, ancor prima che nel cuore dell'Africa.

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