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I nostri giorni da schiavi

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Quando si parla di schiavitù l'immagine che viene subito in mente è legata alla tratta degli schiavi, ai trasferimenti via nave da un continente all'altro, soprattutto si pensa alla deportazione di centinaia di africani verso le Americhe, tra il XVI e il XIX secolo. Costretti a vivere in condizioni disumane, incatenati nelle stive delle navi, in totale assenza di igiene, molti schiavi morivano durante il viaggio; altri, dopo essere riusciti a liberarsi preferivano suicidarsi lanciandosi in mare piuttosto che andare incontro a una vita senza libertà. Sono passati 150 anni da quando gli Stati Uniti hanno vietato il commercio di esseri umani, ma la schiavitù esiste ancora.

La storia di Victor e Helen

Ne sanno qualcosa Victor ed Helen; a In Terris hanno raccontato l'odissea che dall'Africa li ha portati in Italia. “Noi non volevamo venire qui – spiegano – volevamo restare nel nostro Paese, ma siamo stati costretti a imbarcarci perché c'erano molte persone armate. Siamo stati sul barcone, in mezzo al mare, per 11 ore”. Per loro la fuga è stata una scelta obbligata. Da tempo il Camerun, loro terra natale, fa i conti con la rivolta della minoranza anglofona, che chiede la secessione dal resto del Paese, a maggioranza francofona. Le milizie dell'Ambazonia (la regione che chiede l'indipendenza) sono responsabili di numerosi atti di violenza – affermano – irrompono nelle case, rapiscono i giovani maschi per farli entrare nella ribellione, bruciano villaggi e uccidono. Nella speranza di un futuro migliore, Victor ed Helen hanno così deciso di lasciare il loro Paese. La prima tappa, in Nigeria, si rivela più complicata del previsto, vista la presenza del gruppo terroristico di Boko Haram. Poi arriva l'offerta di ospitalità in Algeria da parte di un amico. Ingente il costo del viaggio – 40 mila franchi a persona –  che, in ogni caso, non ha l'esito sperato. 

La schiavitù in Libia

Ci hanno ingannato, non ci hanno mai portato in Algeria – dice Victor – All'inizio erano gentili, ma il viaggio durava troppo e abbiamo iniziato a innervosirci. Per farci stare calmi ci hanno detto che alcune persone volevano andare in Libia e in seguito ci avrebbero portato dove volevamo”. Invece, la giovane coppia si ritrova in Libia, dove vengono divisi e chiusi in una prigione insieme ad altre persone. “Il nostro autista ci ha consegnato a un gruppo armato che gestiva il campo, mi hanno separata da Victor e ci hanno chiuso in due stanzoni con altre persone – racconta Helen – Abbiamo subito tutti atroci violenze fisiche, ci hanno picchiato e minacciato perché chiamassimo le nostre famiglie per farci mandare i soldi per pagare il riscatto“. Poi la fuga dalla prigione, grazie a un uomo che offre aiuto. L'incubo sembrava finito, e invece no. Victor ed Helen vengono costretti a diventare schiavi agricoli. “Ci hanno obbligati a raccogliere pomodori senza alcuna paga. Vivevamo lì senza nessun servizio igienico, non potevamo lavarci, a volte mangiavamo solo pane. Siamo dovuti rimanere lì per sei mesi“. 

L'obbligo di partire per l'Europa

Poi, un giorno, la sveglia alle 2 del mattino per una nuova partenza, destinazione ignota. “Avevamo paura, piangevamo, non sapevamo dove ci stesse portando e pensavamo che ci avrebbe venduto ad un altro padrone. Ha detto che ci avrebbe aiutato ad andare in Europa, ma noi voleva raggiungere l'Algeria. Siamo stati costretti a salire su un barcone dove c'erano altre 170 persone“. Su quel gommone Victor e Helen rimangono per 11 ore, con la paura di affondare e morire in mare. Poi il salvataggio da parte di una nave francese, che li trasferisce su un'imbarcazione spagnola. Dopo tre giorni sbarcano a Palermo, in Italia. Oggi la giovane coppia vive in una struttura dell'Associazione Pace In Terra Onlus. “Non vogliamo tornare nel nostro Paese, là la situazione è sempre più grave a causa della guerra – sottolinea Victor – Vogliamo trovare un lavoro onesto e ricostruire la nostra vita“. 

Gli schiavi nel mondo

Migranti costretti a partire e a pagare cifre esorbitanti che vanno a riempire le tasche dei trafficanti, donne giovanissime ingannate con la promessa di un lavoro e poi costrette a vendere il loro corpo sui viali a luci rosse delle città italiane ed europee, lavori inumani e degradanti nei campi, in fabbrica, ma anche sfruttamento domestico e matrimoni combinati tra minori e uomini adulti. Sono queste alcune delle mille sfaccettature che compongono la schiavitù moderna. Secondo il “The Global Slavery Index Report 2018” – rapporto redatto in base alle stime della Walk Free Foundation, dell'International Labour Organization (Ilo) e dell'Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) – circa 40,3 milioni di uomini, donne e bambini sono stati vittime del fenomeno. Il rapporto ha preso in esame 167 Paesi ed è emerso che India, Cina, Pakistan, Uzbekistan, Russia, Nigeria, Congo, Indonesia, Bangladesh e Thailandia, all'interno dei loro confini detengono il 70% della quota totale di schiavi. Solo in India, in cima alla classifica, le persone ridotte allo stato servile sono oltre 14 milioni

La ricorrenza

Per combattere questa piaga sociale il 2 dicembre si celebra la giornata internazionale per l'abolizione della schiavitù. E' stata istituita dalle Nazioni Unite e ricorda la data in cui l'Assemblea generale approvò la convenzione dell'Onu per l'eliminazione del traffico di persone e dello sfruttamento della prostituzione, avvenuta il 2 dicembre 1949. “Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma”. Sono le parole contenute nell'articolo quattro della Dichiarazione universale dei diritti umani, firmata a Parigi il 10 dicembre 1948. Parole che però vengono costantemente e quotidianamente smentite dagli episodi di cronaca che si verificano in ogni parte del mondo. 

 

Manuela Petrini: