Il vero ascolto non si limita al solo uso del senso dell’udito, ma significa possedere la propensione a comprendere quanto ci viene detto. Nel caso l’ascolto coinvolga gli adolescenti diventa tutto più complicato, in quanto non sempre un adulto riesce a calarsi nella realtà dei ragazzi e a capire pienamente il groviglio di emozioni e di bisogni che li percorre.
L’intervista
Ogni 21 Ottobre si celebra la Giornata Mondiale dell’Ascolto, istituita in occasione del 27th International Focusing Conference 2016 e volta a promuove l’importanza dell’ascolto in quanto opportunità di sviluppo e di cambiamento sociale e personale. Interris.it ha intervistato la dottoressa Alessandra Spanò, psicologa e psicoterapeuta che, forte della sua esperienza con gli adolescenti, ha spiegato cosa impedisce a un adulto di ascoltare un ragazzo e le possibili conseguenze di questa mancanza.
Dottoressa, in che modo i ragazzi hanno bisogno di essere ascoltati?
“L’ascolto che porta dei frutti è quello attivo e non giudicante. I giovani al minimo presentimento che verranno giudicati chiudono la porta comunicativa e da quel momento in poi risulterà molto difficile riaprila. Il compito dell’adulto è quello di mettersi in ascolto per comprendere i bisogni senza la presunzione che il ragazzo abbia bisogno di un giudizio finale”.
Che cosa impedisce a un adulto di ascoltare un ragazzo?
“La non capacità e, a volte, la non voglia di comprendere che tra lui e l’adolescente è avvenuto un cambio generazionale importante. I giovani vedono e interpretano il mondo con degli occhi diversi rispetto ai coetanei di 40 anni fa. L’adulto ha il dovere di aggiornarsi e non di demonizzare tutti gli strumenti, come i social, al giorno d’oggi diventati pane quotidiano”.
La pandemia ha ostacolato questo processo di ascolto?
“A livello clinico ha provocato dei danni tuttora visibili che hanno fatto registrare un aumento del disagio psicologico. Il covid ha creato una barriera intergenerazionale importante e concreta tra i ragazzi e gli adulti. Abbiamo riscontrato che i giovani che hanno sofferto maggiormente di questa situazione sono quelli nati nel 2006, che nell’anno della pandemia dovevano finire la terza media e per cui stavano nel mezzo di una fase adolescenziale molto delicata”.
Che tipo di disagi avete riscontrato in loro?
“In primis la depressione, i disturbi alimentari e alcune difficoltà relazionali che provocano attacchi di panico. Nei bambini invece che dovevano iniziare la prima elementare, abbiamo notato la difficoltà ad apprendere come gestire le regole comportamentali. In tutti invece abbiamo assistito un aumento del senso di insicurezza e di pericolo, il cui grado è differente in base all’ambiente familiare. Se la famiglia ha cercato di vivere quel periodo con positività, mettendo al centro l’importanza dello stare assieme, abbiamo visto delle belle evoluzioni, chi invece già viveva criticità importanti, lo stare assieme h24 ha enfatizzato i conflitti esistenti”.
Quali sono le conseguenze di una mancanza di ascolto?
“L’adolescente che non viene ascoltato non si sente capito. Nella maggior parte dei casi questi ragazzi vogliono delle risposte e se queste non vengono date dal nucleo famigliare scatta una ricerca altrove. In alcuni casi tra i coetanei, altre volte sui social, ma queste risposte non portano alcun beneficio. Per questo c’è bisogno che la famiglia sappia ascoltare e che la scuola non si limiti ad educare, ma dia anche risposte esaustive e stessa cosa vale per tutti i gruppi aggregazione”.
I ragazzi sanno ascoltarsi?
“No perché non sanno comunicare. Tra di loro parlano via audio e si tratta per lo più di messaggi autoreferenziali. Ascoltare è una capacità che abbiamo innata, ma che va coltivata stando con gli altri. Purtroppo la tecnologia ha preso il sopravvento sulla parola e non esistono più momenti morti, perché il cellulare è diventato quel migliore amico che non lascia mai solo. Si tratta però di una vicinanza surreale che in realtà crea solo distanza l’uno con l’altro”.