Il tema dell’eutanasia è prepotentemente tornato d’attualità questa settimana. A far accendere i riflettori la vicenda di Noa Pothoven, 17enne olandese che si sarebbe lasciata morire di fame e di sete, davanti agli occhi dei genitori, in quanto da tempo depressa per aver subito diverse violenze sessuali. A fare da sfondo alla vicenda, martedì scorso in Italia, c’è stata la prima riunione del comitato ristretto delle Commissioni Affari sociali e Giustizia della Camera, dove le due forze politiche di maggioranza provano a mediare per trovare una legge che soddisfi la Consulta, che ha chiesto entro settembre prossimo al Parlamento una norma in tal senso. In Terris ha parlato della questione con Marina Casini Bandini, presidente del Movimento per la Vita italiano.
Si è parlato di fake news intorno alla vicenda di Noa. La legge olandese sull’eutanasia c’entra o non con la morte di questa giovane?
“C’entra soprattutto perché ha ‘promosso’ nella società la morte su richiesta, dandole veste legale, sfruttando il linguaggio dei diritti, fornendola di assistenza medica. Insomma, infranto il principio della indisponibilità della vita propria e altrui (la morte si accetta, ma non si cagiona), scissa la vita dalla qualità della vita, la biologia dalla biografia, l’essere umano dalla persona, la dignità dai diritti, un po’ alla volta tutto diviene possibile, accettabile, lecito, addirittura doveroso. E poi, se il criterio assoluto è la volontà individuale, perché porre limiti alla richiesta di morte del depresso o del minore?”.
Entro settembre il Parlamento italiano dovrà intervenire a livello legislativo sul fine vita, come chiesto dalla Consulta. A suo avviso c’è il rischio che l’eutanasia possa essere approvata?
“Il rischio c’è. Ci sono margini per evitarlo, ma bisogna vedere quanto le forze politiche in campo sensibili al tema della vita sono disposte a impegnarsi a fondo e a spendersi. Purtroppo, ripercorrendo la strada a ritroso sembrerebbe chiaro che il percorso avviato dalla legge 219 del 2017 (e che in realtà parte da più lontano) porta a quell’approdo, salvo, appunto, una intelligente, ferma e chiara opposizione in Parlamento da parte di coloro che – lavorando sui principi cardine dell’ordinamento che riconducono al ‘favor vitae’ – hanno a cuore una società davvero civile. Bisogna che le forze parlamentari che hanno a cuore le persone malate o disabili e le loro famiglie contrastino questa mentalità eutanasica che in nome di un’autodeterminazione assolutizzata (caricatura dell'autentica libertà) pretende di recidere il più elementare vincolo di solidarietà umana: quello che riconosce sempre e comunque l'uguale dignità dell'altro e promuove autentiche relazioni di cura. Del resto, è la stessa Corte Costituzionale nella sua contraddittoria e discutibile ordinanza ‘ha comunque messo in guardia – come ha sottolineato Mantovano nella sua audizione in Parlamento – sul fatto che l’autodeterminazione – il consenso – nei casi di persone con gravi patologie è fortemente condizionato da situazione di debolezza’”.
Ha parlato di un percorso avviato dalla legge del 2017 verso l’eutanasia…
“Quella legge in apertura sembra voler prendere le distanze dall’eutanasia quando afferma che ‘il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali’. Tuttavia, alcuni passaggi dell’articolato successivo non sono coerenti con una presa di distanza dall’eutanasia a meno di non volere dare dell’eutanasia una interpretazione ristretta, circoscrivendola alla sola forma ‘attiva’. Ma come sappiamo, l’eutanasia ha anche un volto ‘omissivo’ che, però, è sempre opportuno precisarlo, nulla a che vedere con il rifiuto/rinuncia alle terapie e con il rifiuto di accanimento terapeutico. Il principale aspetto riguarda, come è noto, la nutrizione e l’idratazione assistita che in nome di preteso diritto di autodeterminazione a oltranza possono essere sottratte in ogni caso, cioè anche quando non si configurino come ‘accanimento’, ma siano semplicemente elementare sostegno vitale di cui tutti peraltro necessitiamo. C’è poi il tema della libertà di coscienza del medico, per esempio, non tenuta in considerazione. La Corte Costituzionale ha trovato nella legge 217 il varco per indicare la strada verso la morte volontaria socialmente organizzata. Se una persona può morire di fame e di sete per mano di terzi, perché non potrebbe morire direttamente con un’iniezione letale? Se il criterio che regge tutto è solo quello dell’autodeterminazione, perché questo dovrebbe valere in un caso e non in un altro? Sarebbe perciò necessario, come alcuni già sostengono, prima ancora di opporsi a nuove leggi dichiaratamente, tentare di tappare la falla rimuovendo o correggendo quell’impronta eutanasica presente nella legge sulle Dat. Ma la vedo dura”.
Qual è l’impegno che la società civile e la politica dovrebbero svolgere sul fronte dell’assistenza ai malati per far fronte alla tentazione di optare per l’eutanasia?
“È un impegno serio e importante. Si tratta in primo luogo di attuare a 360 gradi la legge n. 38 del 2010, che riconosce il diritto alle cure palliative e a una adeguata terapia del dolore. Fondamentale è poi rafforzare l’assistenza sanitaria anche a domicilio, garantire il diritto alle cure adeguate e fruibili, ristabilire un’autentica alleanza terapeutica, supportare economicamente chi ha più bisogno, aiutare le famiglie, migliorare le strutture ospedaliere sia dal punto di vista ambientale che dal punto di vista della formazione umana e professionale degli operatori. Mi pare anche importante sottolineare quanto recentemente affermato da Gian Luigi Gigli: 'La ricerca del consenso, la pianificazione condivisa delle cure, il rifiuto dell’accanimento e l’attenzione al momento della desistenza terapeutica, la cultura della palliazione sono già oggi patrimonio di ogni buon medico e vale la pena lavorare tutti insieme perché diventino valori sempre più incarnati nella pratica professionale. È all’interno del rapporto medico-paziente che può essere trovata la soluzione dei casi difficili'. Perciò la risposta della società di fronte alla malattia e alla disabilità non deve essere quella di cagionare la morte in maniera concordata e organizzata, ma quella della cura e dell’amore; dell’amore e della cura. Lo sguardo della società su malati e disabili dovrebbe essere uno sguardo pieno di tenerezza, sempre pronto – anche quando l’altro ha smarrito la percezione della propria dignità – a riconoscere il valore della persona anche nelle condizioni di estrema dipendenza dagli altri”.