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“Ero in coma e volevo vivere, oggi dico no alla legge”

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Avere vent’anni significa vivere una vita dinamica e coltivare sogni per il futuro. È stato così anche per Sara Virgilio, oggi quarantatreenne, fin quando un pirata della strada la falciò sulle strisce pedonali in pieno centro abitato, nella sua Salerno.

Il dolore, la paura, gli ospedali, il coma, una vita che sembrava perdersi. E che invece è tornata a librare non senza difficoltà. Quella di Sara Virgilio è una testimonianza che lascia il segno, un manifesto contro la “cultura della morte” che qualcuno, in questi giorni di dibattito sulla legge sul biotestamento, vorrebbe  – spiega lei stessa a In Terris“camuffare da diritto”.

La storia

Era il 1994 quando Sara divenne “una vittima della strada”. Dopo il violento impatto con l’automobile, rimase atterra sulle strisce pedonali. “Ebbi una serie di fratture ed entrai in coma – racconta -. Fui trasportata in eliambulanza da Salerno al Policlinico Gemelli di Roma, dove il caso clinico fu trattato secondo protocollo”.

Sara rimase in coma per circa un mese. “Al di là della durata del coma, è l’intensità che conta”, spiega. Si tratta di “una condizione non facile da descrivere, perché chi la vive sa di essere in coma, vorrebbe comunicare con l’esterno ma non può”. Le sono rimasti oggi “solo alcuni frammenti di ricordo”, spiega che non sentiva dolore e che non sempre aveva “una percezione chiara di ciò che avveniva”.

Ma bastano quei frammenti per inquadrare bene la situazione. “Ci furono diverse complicazioni, tra cui un’emorragia celebrare e una polmonare”, afferma Sara. Che aggiunge: “I medici non mi avevano dato grandi speranze di sopravvivere”.

Eppure, nei suoi sprazzi di lucidità era forte l’intento di “essere considerata una persona”. Sara racconta che “volevo uscire da quello stato e far capire agli altri che c’ero, che avevo una dignità e che stavo lottando per svegliarmi”. “Avvertivo – continua – la presenza di mia madre, lei che entrava nella stanza e che mi parlava”.

Voglia di vivere

Sara avrebbe voluto risponderle, ma si sentiva – afferma – “prigioniera del mio corpo”. Una condizione che, tuttavia, anziché fiaccare la sua voglia di vivere, le diede una “forza mai immaginata prima”. “Chi può dire – si chiede – che non fosse una condizione di vita? Era vita anche quella, la mia volontà era che non mi staccassero le macchine”.

Una forza che è rimasta salda anche dopo il risveglio. “Quello fu il momento in cui iniziai a sentire dolore”, racconta. Fu un periodo tribolato, non sapeva in che condizioni sarebbe sopravvissuta. All’inizio era bloccata sul letto, poi fu messa su una sedia a rotelle e lentamente riacquisì l’uso della parola. “I dolori erano spesso lancinanti – ricorda -, non sono mancati i momenti di sconforto, ma fu importante il sostegno dei miei genitori e mai ho pensato di voler morire”.

Oggi Sara ha una laurea in Biologia, lavora ed è felice. Anche se non mancano gli strascichi di quell’incidente avvenuto ventitré anni fa. Entra ed esce dagli ospedali. “Appena una settimana fa è terminato un ultimo ricovero”, afferma.

Lo sguardo sul Senato

In Senato prosegue l’acceso dibattito sulla legge sul Biotestamento. Una questione che tocca Sara personalmente. Prima dell’incidente, le era capitato di chiedersi come avrebbe reagito se si fosse trovata in una condizione di salute disperata. “C’è però una differenza sostanziale – riflette oggi -: un conto è porsi questa domanda quando si è sani, un conto è essere infermi”.

Sara spiega che “quando la condizione è estrema, anche se l’esperienza è vissuta in maniera diversa da persona a persona, l’istinto è quello di aggrapparsi alla vita con tutte le proprie forze”. Secondo Sara non è possibile prevedere come si reagirebbe in determinate condizioni, per questo le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat) rappresentano un pericolo, “non danno spazio al ripensamento”.

Come nasce la “cultura della morte”

Il problema, secondo Sara, è anzitutto culturale. “Oggi si pensa che la vita è tale solo quando si può viaggiare e correre – afferma -. Ma non è così. La persona ha dignità anche quando è costretta su un letto d’ospedale”. E ancora: “Si sta diffondendo un’idea utilitaristica della vita umana: nel momento in cui non siamo più in grado di produrre, diventiamo un costo e veniamo tolti di mezzo. È così che nasce la ‘cultura della morte’ camuffata da diritto”, che si traduce “nella fretta ad approvare la legge sulle Dat”.

Secondo Sara, il malato chiede di morire “quando si sente lasciato solo”. Pertanto è fondamentale “la vicinanza e la cura degli altri”, nonché “strutture ospedaliere in grado di accogliere e sostenere anche i casi più disperati”. Ecco allora – osserva – “che più che aiutare le persone a morire, sarebbe opportuno che la politica investisse per seguire i pazienti in strutture adeguate e non farli sentire abbandonati”.

Leggi che minacciano la vita

È un tema – ci tiene a sottolineare Sara – che si collega a quello dell’aborto. “In nome della salute delle donne, sta avvenendo – la sua riflessione – una strage di innocenti nella pancia materna. Bisognerebbe mettere invece le donne nelle condizioni, economiche e sociali, di poter avere figli senza sentirlo un peso ma un dono”.

Il suo è dunque un appello, contro la “cultura della morte” promossa da leggi volte “a distruggere la vita e la famiglia”. È un grido che è entrato nei palazzi istituzionali, nel febbraio scorso ha parlato in Senato in una conferenza organizzata dall’Associazione ProVita Onlus. È un inno alla vita che in queste ore torna più che mai attuale.

Federico Cenci: