Parlare della paura senza alimentarla”: questo il consiglio per i giornalisti, radunati al Talitha Kum di Piazza Ponte Sant'Angelo a Roma per il corso di formazione “Migranti e tratta – L'etica del giornalista nel raccontare le migrazioni”, promosso da Lazio Sette e Dire. A lanciarlo è Francesco Pelosi, cronista di Vatican Insider, fra i relatori del convegno e intento a fornire ai colleghi in sala una chiave di lettura fondamentale per raccontare il dramma delle migrazioni senza scadere nella retorica o nell'allarmismo. Un passaggio altrettanto importante perché, in qualche modo, propedeutico all'apertura di una visione che possa indagare ancor più a fondo nei risvolti occulti dei flussi migratori e aprire la strada a una presa di coscienza di tutti quei fenomeni correlati, dei quali spesso si parla troppo poco.
Testimonianze struggenti
La tratta di esseri umani non fa certo eccezione. Lo sfruttamento meschino e selvaggio di giovani donne provenienti da Paesi stranieri, organizzato in un racket criminale che lucra sulla pelle di queste giovani, non è altro che un doloroso e crudele effetto collaterale. A parlarne in sala è stato don Aldo Buonaiuto, della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi e da oltre vent'anni impegnato nell'opera di salvare dalla strada queste giovanissime ragazze, costrette a prostituirsi per soddisfare la cosiddetta “domanda”: “Ho pensato spesso, ultimamente, al senso della parola 'cliente' per indicare queste persone… E' forse un termine troppo nobile per questi 9 milioni di uomini che, ogni anno, si rendono complici di questo mercimonio”. L'attenzione dei presenti è rivolta a due toccanti testimonianze, emblema della tragedia della tratta e della schiavitù subita dalle vittime di chi mercifica il corpo altrui allo scopo di guadagnare del denaro sporco.
Dignità calpestate
Un filmato racconta la storia di due ragazze, giovanissime, ingannate dalla prospettiva di un futuro migliore ma finite in un inferno fatto di violenza di ogni tipo, torture e altri osceni tormenti: “Dobbiamo smetterla di cadere nell'errore che ci porta a credere che qualcuna di queste donne vada sulla strada volontariamente. In questi venti anni non mi è mai capitato di incontrarne una 'felice' di fare questa vita. Le loro catene sono la minaccia di ritorsione contro i propri cari, il loro essere donne-cavie, usate per intimidire, per dare l'esempio alle altre. A volte, quando le incontriamo per strapparle al dramma della strada, il loro unico desiderio è quello di uccidersi”. Queste ragazze, in molti casi estramamente giovani, “sono costrette a mentire sulla propia età e anche sulla propria nazionalità. Quasi tutte hanno subito mutilazioni, la maggior parte è affetta da malattie psichiatriche. Mi chiedo chi si inginocchierà mai per chiedere loro perdono, per quel futuro che gli è stato sottratto, negato”. Anche chi possiede dei pregiudizi su queste donne, autoconvincendosi che possano arrivare per loro scelta a essere schiave di un racket perverso, “si ricrede quando le incontra, quando vede le loro ferite e guarda i loro occhi: dinanzi a una persona con le orecchie tagliate, disintegrata e umiliata, tutto cade”. E' in quel momento, conclude don Aldo, che “ci si chiede chi restituirà loro quella dignità”. Quella che, con tanta violenza, gli è stata sottratta per far posto al morbo della paura.