Il momento della malattia è una condizione molto particolare in cui il paziente deve affidarsi a un team medico. La priorità è curarlo al meglio, tenendo conto delle caratteristiche della singola persona, delle sue preferenze e di come vive la patologia in atto.
È questa la base della medicina incentrata sui pazienti, ovvero un approccio che si adatta alla persona prendendo in considerazione sia aspetti più tecnici, come le caratteristiche molecolari della malattia in corso, sia altri più personali e sociali, quale per esempio la presenza di un supporto sociale o eventuali difficoltà economiche dei malati.
La Cittadella della Carità
È una fondazione nata nel 1984 dalla volontà e dalla fede dell’arcivescovo monsignor Guglielmo Motolese. Si tratta di una struttura sanitaria che eroga servizi e cura persone sofferenti senza mai mettere da parte l’attenzione all’uomo e ai suoi bisogni. La struttura comprende una RSA con 80 posti letto e in cui vengono prese in cura anche tutte le persone che non hanno una rete familiare. C’è poi in poliambulatorio e una casa di cura con 60 posti letto.
L’intervista
Interris.it ha intervistato l’avvocato Salvatore Sibilla, presidente della Cittadella della Carità di Taranto che ha spiegato lo spirito di accoglienza e di cura che caratterizza la struttura pugliese.
Avvocato, quanto è importante mettere al centro della cura la persona?
“Il principio è che il paziente non è la sua malattia. Per renderlo pienamente concreto nella sua operatività, oltre alla cura della patologia, vengono messe in atto una serie di attività di attenzione verso la persona in quanto tale. Nello specifico, durante l’emergenza da Covid-19, noi siamo stati una delle prime strutture ad aver avuto la stanza degli abbracci, nata dalla forte volontà di evitare che chi stava già vivendo una situazione di fragilità subisse anche una condizione di abbandono e di allontanamento dagli affetti più cari”.
Quale è l’atteggiamento etico del vostro staff medico?
“Considerando sempre che il paziente va salvaguardato, i nostri operatori cercano di garantire una proporzione tra la cura e la possibile sofferenza che questa reca al paziente. Nel momento in cui ci si accorge che questo equilibrio viene meno, si fermano per trovare nuove soluzioni. É poi fondamentale che l’aspetto sanitario sia sempre supportato anche da un percorso psicologico adeguato e personalizzato”.
Voi avete introdotto il treno della memoria. In che cosa consiste?
“Tramite una psicologa, le persone che vivono in una condizione di demenza, vengono aiutate a ricordare la propria vita. Questo viene fatto attraverso uno strumento in cui vengono fatte scorrere delle immagini come davvero si trattasse del treno della propria vita, partendo, ove possibile, dall’infanzia stessa. Questa attività ha un valore prezioso in quanto offre alla persona la possibilità di rivedere l’intero percorso della propria esistenza”.
Alcuni pazienti si chiudono in se stessi. Come entrate nel loro mondo?
“Noi lo facciamo rispettando totalmente il carattere del singolo. Ognuno di loro affronta la malattia in un modo proprio e per questo motivo è nostro compito personalizzare l’intervento. Per esempio ci siamo resi conto che nel caso di pazienti che si chiudono particolarmente è molto efficace l’attività della pet therapy. Ci accorgiamo infatti che molti di loro nel prendersi cura degli animali acquisiscono fiducia in se stessi ed iniziano ad interagire di più con il mondo che li circonda”.
A volte si pensa che la malattia sia un tempo di inutilità. Come riuscite a modificare questa falsa percezione?
“Con delle attività che, tenendo conto della patologia sofferta, siano di supporto alla persona e li metta al centro. Tra queste vi sono quelle di disegno e di pittura in cui con la loro creatività, dote a volte nascosta, possono creare cose molto belle. Durante le feste poi, anche attraverso dei gruppi di volontariato, abbiamo organizzato dei momenti canori. Questa parte relazionale è fondamentale anche per l’efficacia dell’intero piano terapeutico”.