Il bubbone è scoppiato. Come rivela un'inchiesta del Times, hanno rassegnato le dimissioni cinque medici del Gids (Gender Identity Development Service), servizio dell'unica clinica (con sede a Londra e succursale a Leeds) che offre per conto del Servizio sanitario nazionale britannico il trattamento per cambiare sesso a bambini che soffrono di disforia di genere, ossia che non si riconoscono nella loro identità sessuale biologica. I camici bianchi riluttanti riterrebbero che ad alcuni bambini che si recano presso la struttura verrebbe diagnosticato erroneamente questo disturbo. Tutti e cinque avevano la responsabilità di decidere quali giovani dovessero iniziare il trattamento ormonale per bloccarne la pubertà finalizzato, successivamente, all'eventuale cambiamento di sesso per via chirurgica.
La situazione inglese
L'accusa dei medici dimissionari – riferisce il Times – sarebbe che alcuni giovani, per il solo fatto di essere sottoposti a bullismo cosiddetto omofobico, abbiano subito pressioni affinché intraprendessero l'iter per bloccare la pubertà. Uno dei cinque afferma che sarebbero rimasti sul posto di lavoro per così tanto tempo soltanto per fare da argine, per evitare che troppi bambini iniziassero il trattamento ormonale. “Sono rimasto per proteggere i bambini da eventuali danni”, le sue parole. Il quotidiano britannico evidenzia che negli ultimi tre anni sarebbero almeno altri diciotto i membri della clinica che avrebbero lasciato la loro mansione dopo aver constatato che non verrebbero fatti efficaci controlli per diagnosticare correttamente la problematica dei bambini. Che la situazione possa essere sfuggita di mano sembrerebbe confermarlo anche un professore di Oxford interpellato dal giornale d'Oltremanica, il quale affermerebbe che i trattamenti “erano supportati da prove di bassa qualità, o in alcuni casi senza prove“.
I precedenti
Dal canto suo, il Gids si difende sostenendo che offre un servizio “sicuro”, che riconosce e rispetta le peculiarità di ogni caso, sottolineando che in casi complessi vengono fatte accurate diagnosi. Qualche scossa di terremoto, tuttavia, si era registrata già nei mesi scorsi. Dapprima, nel settembre scorso, il ministro per le Pari opportunità britannico, Penny Mordaunt, aveva incaricato dei funzionari governativi di avviare un’indagine per capire il motivo per cui un numero impressionante di bambini ed adolescenti manifestasse il desiderio di cambiare il proprio sesso biologico. Secondo un rapporto del Ministero della Salute, infatti, rispetto a dieci anni prima, si era registrato un aumento del 4.400 per cento. E poi ancora, a febbraio, il dott. David Bell, ex governatore dello staff del Gids, aveva stilato un rapporto interno in cui esprimeva preoccupazione per il fatto che non si stavano prendendo in considerazione appieno fattori psicologici e sociali dietro la decisione di un giovane di intraprendere il percorso di transazione sessuale.
La situazione svedese
Dalla Gran Bretagna alla Svezia, il passo è breve. Nel Paese scandinavo, infatti, come riferisce un'inchiesta della Svt, la tv di Stato, negli ultimi anni vi è stato un boom di adolescenti desiderosi di cambiare sesso. Se nel 2008 erano ventotto in tutto il Paese le adolescenti tra i dieci e i diciannove anni che ricevevano cure per trattare la disforia di genere, nel 2017 erano diventate 536: un incremento del 1.900 per cento. Sempre la Svt evidenziava il problema delle persone pentite di aver intrapreso l'iter per il cambiamento di genere, alle quali si stanno offrendo trattamenti per lenire il trauma. Si sottolinea che si tratta, dal 1972 al 2010, di appena quindici casi (il 2,2% del totale), ma la statistica considera un lasso di tempo precedente all'inizio dell'esplosione del fenomeno. Dopo il 2010, si legge ancora sul sito della Svt, non è più stato fatto uno studio simile. Le notizie provenienti da Gran Bretagna e Svezia giungono proprio nel periodo in cui il dibattito sul cosiddetto “farmaco gender” (la triptorelina) imperversa anche in Italia, a seguito della decisione dell'Agenzia del Farmaco (Aifa) di inserirlo “a totale carico del Servizio sanitario nazionale”. Chissà che non siano spunti per una riflessione ulteriore sul tema.