Solo il 5% delle vittime d’usura fa la denuncia. Nel mirino degli usurai ci sono soprattutto le attività economiche in crisi e le famiglie indebitate. Per loro l’accesso al credito legale è sempre più difficile con le banche che chiedono stringenti garanzie e la situazione è particolarmente grave nel Lazio. E si è già strozzati prima di rendersi conto. Nella Capitale e nelle altre province ci sono 2248 famiglie, a rischio usura, assistite con programmi finanziari. Oltre ai fondi del ministero dell'economia, la Regione ha istituito un sussidio di 20mila euro per impedire che chi è in gravi difficoltà finanziarie si rivolga a falsi amici.
Quadruplicati gli importi
“L'usura è diventata una emergenza sociale, stimiamo che le vittime siano aumentate del 20% e sono a rischio almeno 40mila famiglie fortemente indebitate – avvertono l’associazione italiana prevenzione dall'usura e l'Ambulatorio Antiusura della Confcommercio – Dieci anni fa il debito medio di una famiglia a rischio era di 10mila euro, ora arriva a 40 o 45 mila”. E secondo il Rapporto contro le mafie dell'Osservatorio regionale per la legalità reso noto da Repubblica: è sempre più forte nel Lazio il collegamento tra usura e criminalità organizzata e mafiosa. “È un'attività delle mafie – spiega Gianpiero Cioffredi presidente dell'Osservatorio citando il rapporto – e oltre Casamonica, Spada e Gambacurta, ci sono altri gruppi come i Primavera a San Basilio, Cellammare a Monterotondo, Zioni a Primavalle o piccole bande come i Grecco a Torbellamonaca. Con l'usura si riesce ad acquisire forme di supremazie e controllo in specifici settori imprenditoriali e commerciali”. L'usura come strumento mafioso, dunque.
L’impegno della Chiesa
La Chiesa è da sempre impegnata accanto alle vittime di usura. Una mobilitazione che ha un’antica radice teologica. “Per il Magistero della Chiesa cattolica infatti, fin dall’epoca degli Apostoli, deve ritenersi tecnicamente usura (quindi peccato mortale) tutto ciò che 'eccede' la restituzione del capitale ricevuto in prestito, fosse anche un solo centesimo – spiega al Fatto Quotidiano lo storico dell’università di Verona, Sergio Noto -. Il fondamento di questa disciplina sta in un passo del Vangelo, 'mutuum date nihil inde sperantes', la cui interpretazione non ammette vie d’uscita per le attività di prestito del denaro lucrose. Per noi usura significa un tasso di prestito del denaro mostruosamente elevato; per la legge italiana vuol dire un interesse superiore a circa 2 volte il tasso corrente per i mutui fondiari; ma per la Chiesa da sempre e mai senza alcuna rettifica, ogni profitto conseguente all’attività finanziaria è di per sé moralmente illecito”. Da questa dottrina, sulla quale esiste una produzione letteraria infinita, se ne deduce facilmente che la Chiesa ha sempre considerato il lavoro umano come il fattore principale dei processi economici. “Ne sia la prova che tutto il castello teorico dell’usura si regge sul principio che il denaro in sé non può essere considerato un fattore di produzione, ma solo un semplice mezzo di scambio – aggiunge il professor Noto -. Il denaro si guadagna con il sudore della fronte, producendo beni, non con lo spostamento di altro denaro. Al contrario, su analoghe posizioni antiusurarie, in maniera esplicita e con modalità molto più vincolanti per i suoi fedeli è rimasto il mondo islamico, condizionando indirettamente e in profondità lo sviluppo delle attività finanziarie e di quelle economiche. Il rallentato sviluppo economico di quei paesi è certamente in parte dovuto al fatto che essi hanno rifiutato di adottare un sistema bancario come quello occidentale, per sua natura usurario, che invece la Chiesa cattolica ha tollerato, almeno dal XVIII secolo in poi, nei fatti pur continuando a condannarlo nella teoria”.
Dalla parte di chi ha bisogno
Da sempre il magistero della Chiesa considera la povertà una privazione grave di beni materiali, sociali, culturali che minaccia la dignità della persona. I poveri sono quanti soffrono di condizioni disumane per quanto riguarda il cibo, l’alloggio, l’accesso alle cure mediche, l’istruzione, il lavoro, le libertà fondamentali. 8 dicembre 1965. La chiusura del Vaticano II offre l’occasione a Paolo VI per un ispirato messaggio ai poveri: “O voi tutti che sentite più gravemente il peso della croce, voi che siete poveri e abbandonati, voi che piangete, voi che siete perseguitati per la giustizia, voi di cui si tace, voi sconosciuti del dolore, riprendete coraggio: voi siete i preferiti del regno di Dio, il regno della speranza, della felicità e della vita, siete i fratelli del Cristo sofferente e con lui, se lo volete, voi salvate il mondo”, scrive papa Montini. “Sappiate che non siete soli, né separati, né abbandonati, né inutili: siete i chiamati da Cristo, la sua immagine vivente e trasparente. Nel suo nome, il Concilio vi saluta con amore, vi ringrazia, vi assicura l’amicizia e l’assistenza della Chiesa e vi benedice”.
La lezione del Concilio Vaticano II
Francesco rimarca la continuità con la tradizione della Chiesa nell’attenzione ai poveri richiamandosi proprio al Vaticano II. Un mese prima di aprire il Concilio ecumenico, Giovanni XXIII afferma che la Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa è di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri. Negli anni successivi la scelta preferenziale per i poveri è entrata nei documenti del magistero. Qualcuno potrebbe pensare a una novità, mentre invece si tratta di un’attenzione che ha la sua origine nel Vangelo ed è documentata già nei primi secoli di cristianesimo. Dunque, se Francesco ripetesse alcuni brani delle omelie dei primi Padri della Chiesa, del II o del III secolo, su come si debbano trattare i poveri, ci sarebbe qualcuno ad accusarlo che la sua è un’omelia marxista. Per esempio, non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi. Sono parole di sant’Ambrogio, servite a papa Paolo VI per affermare, nella Populorum Progressio, che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto, e che nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. San Giovanni Crisostomo affermava: “Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro”. Commenta Francesco: “Come si può vedere, questa attenzione per i poveri è nel Vangelo, ed è nella tradizione della Chiesa, non è un’invenzione del comunismo e non bisogna ideologizzarla, come alcune volte è accaduto nel corso della storia”. E “la Chiesa quando invita a vincere quella che ho chiamato la 'globalizzazione dell’indifferenza' è lontana da qualunque interesse politico e da qualunque ideologia: mossa unicamente dalle parole di Gesù vuole offrire il suo contributo alla costruzione di un mondo dove ci si custodisca l’un l’altro e ci si prenda cura l’uno dell’altro”.
Gli effetti concreti
L’attenzione ai poveri richiede anche un diverso atteggiamento pastorale. “Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza”, sosteneva il rivoluzionario argentino Ernesto Che Guevara. Il suo connazionale Jorge Mario Bergoglio, nell’omelia della messa di inaugurazione del pontificato del 19 marzo 2013, ha esortato i fedeli a “non avere paura della tenerezza” perché “il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza”. Infatti la tenerezza non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore. “A parte il fatto che il declino economico dell’Italia iniziò certamente a partire dal XVI secolo con la diffusione dell’idea che si potesse diventare ricchi non con le imprese e il lavoro ma attraverso operazioni finanziarie il che dimostrerebbe che le attività finanziarie non sempre sono state sinonimo di aumento del benessere generale- sottolinea al fatto lo storico Noto-. È tuttavia evidente che almeno negli ultimi tre quattro secoli, su questo tema, la Chiesa cattolica ha tollerato di vivere nella profonda ambiguità tra teoria e prassi e che questa 'incertezza' prima o poi dovrà essere risolta, in un senso o nell’altro, dichiarando o rifiutando la legittimità morale delle attività finanziarie”. Quindi “l’economia etica non è acqua fresca che scorre senza lasciare segni. In definitiva non si tratta solo di precisare una volta per tutte come si ponga la Chiesa nei confronti di certi aspetti tipici del mondo moderno, ma si tratta di pronunciarsi autorevolmente sulla possibilità di essere contemporaneamente cristiani e svolgere attività che equiparano il profitto da lavoro con quello derivante da attività, appunto, usurarie”.