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Bedri: dalle ferite della guerra si può rinascere

Bedri è nato il 7 aprile del 1986, in un piccolo villaggio in mezzo ai boschi di nome Ratishi i Ulët in Kosovo, nell’allora Jugoslavia. Una trentina di famiglie in tutto, di etnia albanese, religione cattolica e musulmana. In casa otto bocche da sfamare, lui è la quarta. Tante, per una famiglia povera come la sua. Ma nonostante le ristrettezze economiche la sua infanzia è costellata di bei ricordi: “Ero un bambino felice, timido, molto curioso delle cose, andavo a scuola ed ero anche bravo”.

L'ultimo giorno di felicità

L'ascesa al potere in Serbia di Slobodan Milošević, come leader nazionalista, coincide con la revoca dell'autonomia costituzionale del Kosovo e con l’emarginazione dei cittadini di etnia albanese, la chiusura delle scuole autonome di lingua albanese e la sostituzione di funzionari amministrativi e insegnanti con serbi o persone ritenute fedeli. Questa oppressione portò negli anni ’90 alla nascita dell’organizzazione paramilitare dell'Uck (Ushtria çlirimtare e kosoves), l’Esercito di liberazione del Kosovo. Il 24 marzo 1998 Beri è in classe con i compagni quando sente degli spari. I serbi avevano attaccato il villaggio di Gllogjan perché cercavano una famiglia accusata di terrorismo appartenente all'Uck. Da allora, racconta, “non sono più andato a scuola. Lo considero come l’ultimo giorno di un'infanzia felice e il giorno che dette inizio ad anni di sofferenza”. Il 9 settembre 1998 l'esercito serbo conduce un'offensiva militare via terra, bruciando case e uccidendo le persone che trova nei villaggi. Arrivano anche al villaggio di Bedri che assieme ai suoi fratelli e alla madre si rifugia in un campo profughi improvvisato, a 5 chilometri di distanza. Il padre però non vuole abbandonare la casa e i suoi animali. Viene catturato assieme a dei parenti e fucilato. Il 24 marzo 1999 iniziano i bombardamenti della Nato sulle basi militari dell'esercito serbo. Bedri e la sua famiglia vengono mandati in Albania, in un campo profughi vicino al confine con il Kosovo perché più sicuro.

Niente sarà come prima

Sulla riva del laghetto non molto lontano dal campo, il cugino trova un oggetto. Bedri, incuriosito, chiede di poterlo vedere: ha la forma di una scatola di tonno circolare, del diametro di circa dieci centimetri. Mentre tenta di aprirla, tenendola con la mano destra, esplode. Ecco l’attimo in cui la sua vita cambia. Entra in coma, e ci resta per circa una settimana. Dall’ospedale della cittadina di Kukes a nordovest dell’Albania passa a quello militare di Tirana, dove rimane un mese. Ha perso una mano e non ci vede, ma l’ospedale non può garantire cure adeguate. Grazie alla missione “Arcobaleno”, arriva in Italia all'ospedale pediatrico Santa Chiara di Pisa. È solo, non gli è stato permesso di essere accompagnato dallo zio. All’arrivo al pronto soccorso, la sua vita si incrocia con quella di Giuseppe, Elisabetta e la loro figlia Thaila, lì dopo aver fatto un incidente. “Non scorderò mai il bene che mi hanno voluto e quanto hanno fatto per me”. Bedri si fa voler bene e anche Silvia, Alberto, Tullio, Emanuela, Giusi e Renata – studenti universitari di medicina e volontari – lo fanno sentire meno solo. La notte però è il momento più duro, ricorda il papà morto, piange. “Non riuscivo ad immaginare una vita da non vedente, mi sembrava troppo”. Quando gli tolgono le bende dagli occhi e riesce a vedere anche se sfocato, esulta di gioia. “Il cuore mi batteva fortissimo perché vedevo la luce, è stato un momento incredibile, indescrivibile”. Intanto la guerra in Kosovo finisce e finalmente torna da quel che resta della sua famiglia. Lo accompagna Giuseppe, che nel 2003 si ammala e in pochi mesi muore.

Una nuova speranza

In Kosovo la vita per un disabile è complicata, ha ancora bisogno di cure. Chiede aiuto ai suoi amici italiani e nel 2004 ritorna nel nostro paese. Ad accoglierlo Marco e Giovanna della Comunità Papa Giovanni XXIII, che hanno 4 figli: Lorenzo, Sara, Matilde e Luca. La famiglia in questi 13 anni, gioca un ruolo importante. Lo fanno sentire meno lontano dalla sua famiglia di origine, che ogni tanto va a trovare: gli sono sempre accanto, lo affiancano e sostengono, aiutandolo ad inserirsi in una società diversa dalla sua e ad accettare la sua disabilità. L’adolescenza ad esempio non è un periodo facile. “Quello che mi dava fastidio era lo sguardo pietistico delle persone che non avevano il coraggio di chiedermi cosa era successo”. Bedri vince la sua personale battaglia contro quella guerra che gli aveva tolto la felicità. Si ristabilisce fisicamente. Impara a scrivere con la sinistra, a vederci con un occhio e studia tanto: vuole tutelare i diritti degli altri. Si iscrive a Giurisprudenza all'università di Pisa e nell'aprile del 2017 si laurea in Diritto internazionale ed europeo con una tesi dal titolo: “L'Unione Europea e l'esternalizzazione dei controlli di frontiera”. Lui che ha sperimentato la guerra e ne porta su di sé le conseguenze, oggi si occupa dei richiedenti asilo, intanto come volontario, poi chissà.

Tratto da Sempre

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