Apiù di cento anni dalla nascita e a sette dalla sua morte, Nelson Mandela “Madiba” resta vivo nei cuori di chi lo ha conosciuto. La sua azione non-violenta lascia un'orma indelebile nella storia dell'umanità, perché quest'uomo infaticabile ha mostrato al mondo che il processo di liberazione dall'apartheid, quell'atteggiamento di segregazione della razza bianca dalla nera, poteva essere portato avanti con determinazione senza ricorrere all'uso delle armi e con un vero spirito di fratellanza verso tutti. Divenuto Presidente del Sudafrica, Mandela ricordava senza di “tenere il popolo nel cuore”, avvertendo la necessità, costante e mai sopita, di perpetrare la lotta per l'uguaglianza. Oggi, a distanza di trent'anni da quell'11 febbraio 1990, in cui si pose fine alla segregazione razziale a scapito dei neri, Interris.it ha intervistato Vincenzo Curatola, già Portavoce del Coordinamento Nazionale Anti-Apartheid, sciolto nel '94 – con le prime elezioni demoncratiche del Paese – e Presidente del Centro Antirazzista e sui Rapporti Italia/Sudafrica Benny Nato Onlus.
Perché, a distanza di trent'anni, la fine dell'apartheid è ancora attuale?
“L'aparheid ha unsignificato molto attuale perché è stato l'evento che ha dimostrato che, quando c'è un impegno mondiale dei popoli tutti affiancato a figure rappresentative come Nelson Mandela, anche i miracoli sono possibili. Ci sono tante situazioni che sembrano diifficli da risolvere, ma far fronte comune può aiutare. Ancora oggi ci sono molte situazioni di popoli oppressi da regimi dittatoriali e discriminazioni. Ci sono situazioni ambientali che si potrà vincere se tutti ci mettiamo in sintonia. La vittoria sull'apartheid in Sudafrica è anche il simbolo che, se al livello mondiale si uniscono le forze, tutti insieme ce la possiamo fare”.
Perché è importante mantenere viva la storia della lotta all'apartheid in Sudafrica?
“È stato importante in Italia, in cui si creò un forte movimento, secondo solo alla Resistenza. Dalla fine degli anni Settanta fino ai primi anni Ottanta, si sono diffuse informazioni più precise, e in concomitanza si sono avuti movimenti di solidarietà dopo la condanna unanime della Nazioni Unite. In Italia, l'opinione pubblica si era molto sensibilizzata al tema, perché il governo italiano nei fatti non applicava la condanna. Negli anni Settanta, il nostro Paese era il quarto importatore di carbone dal Sudafrica, il primo importatore d'oro ed esportava nel Paese armi, alimentando di fatto l'apartheid stesso”.
Il Centro di cui è presidente porta il nome di Benny Nato. Come s'intreccia la sua storia con l'Italia?
“Benny Nato è stato esule in Italia. È stato rappresentante dell'ANC di Nelson Mandela, che dal 1985 al 1992 ha svolto nel nostro Paese una grande attività per farci conoscere gli orrori dell’apartheid in Sudafrica e ha contribuito al rafforzamento della nostra cultura anti razzista. Lo ha fatto anche a costo di relazioni aspre, come ricordo il dibattito con l'ambasciatore del Sudafrica in Italia, che non volle incontrarlo. Benny Nato, come fece Mandela, diede il segnale di superare le piccole divergenze, andare all'essenziale e condannare i crimini”.
Anche la Chiesa ha avuto un ruolo essenziale nella lotta all'apartheid, vero?
“Sì, sia la Chiesa cattolica che evangelica hanno avuto un ruolo fondamentale, fungendo anche da collegamento in quelle realtà sudarfricane che, dato il periodo, era difficile raggiungere. Spesso le Chiese stesse hann corso vari pericoli. Ricordo una scuola cattolica gestita da una Congregazione di suore che accoglieva bambini di colore e, quando la polizia faceva le visite di controllo, li nascondeva. Questa scuola era, tra l'altro, sovvenzionata dalla solidarietà italiana”.
Quale messaggio ci lascia la lotta all'apartheid?
“Che l'impegno per il perseguimento dei diritti e l'uguaglianza assumono maggiore peso se vengo condivisi dall'umanità tutta. Porre fine alla segregazione fu un impegno iniziale del Madiba, ma ebbe vasta eco in tutto il mondo. La liberazione, se condivisa a un livello collettivo, può essere pacifica”.
E oggi, quali interventi può fare l'Italia per combattere il razzismo?
” Innanzitutto, ci vuole l'impegno a mantenere in Italia mantenere la memoria, perché dinamiche di quel tipo non accadano mai più. È rimasta impressa nella mia memoria la morte di Gerry Maslow, il primo migrante ucciso nella raccolta di pomodori in Campania nel 1978. Ci fu una mobilitazione di massa. Per me fu l'esempio che l'invito a non impicciarsi era vero,ma anche che sarebbe stata una nostra responsabilità impegnarsi perché questo non sarebbe successo mai più”.