Un anno dopo dall’attacco di Hamas, la pace è ancora lontana

Don Filippo Morlacchi racconta come i cristiani di Gerusalemme hanno vissuto questo ultimo anno

Don Filippo Morlacchi
A sinistra Don Filippo Morlacchi. A destra la città di Gerusalemme. Foto: Don Filippo Morlacchi

È trascorso un lungo e difficile anno dalla mattina del 7 ottobre 2023, quando in concomitanza con la festa di Simchat Torah e in giorno di Shabbat, le televisioni di tutto il mondo passavano le immagini di un massiccio attacco nel sud di Israele, con gruppi di terroristi che, oltrepassato il muro di confine della Striscia di Gaza, dai propri pick up sparavano raffiche indiscriminate contro obiettivi miliari e civili.

L’intervista

Interris.it ha fatto il punto della situazione con don Filippo Morlacchi, sacerdote romano fidei donum, in servizio a Gerusalemme presso il Patriarcato Latino dal 2018. Lui ci racconta i sentimenti con cui i cattolici hanno affrontato questi ultimi dodici mesi.

Don Filippo, i cristiani come hanno vissuto questo anno di violenza?

“Personalmente credo che un cristiano non debba prendere partito né per i filo palestinesi, né per i filo israeliani. Il nostro compito è soprattutto di mediazione, ovvero cercare di non esasperare nessuna delle due parti. Come spesso accade, dopo l’impatto iniziale, la società civile ha cercato di tornare a vivere una quotidianità accettabile; ma il conflitto permane, e dunque si tratta di una pseudo-normalità che io definirei surreale. Le condizioni di vita però cambiano molto nelle diverse regioni del territorio: Gerusalemme – dove io vivo – è più tranquilla. Più difficile è la situazione in Galilea, dove negli ultimi mesi sono stati frequenti i missili lanciati da Hezbollah. Difficilissimo invece è vivere a Gaza, dove, in una situazione di devastazione generale, la comunità cristiana sta dimostrando di possedere una resilienza eroica”. 

Come è oggi la vita dei cristiani a Gaza?

“Si tratta di una comunità che ha perso tutto, o quasi. Molte case, anche di cristiani, sono state rase al suolo o danneggiate. Tutti gli studenti hanno perso l’anno scolastico, tutte le università sono state bombardate e distrutte. La vita di molti è stata azzerata completamente, ma nonostante ciò, si tratta di una comunità che sta cercando di continuare a vivere con tanta dignità, spesso cucinano insieme nei locali parrocchiali, e la preghiera li aiuta a non perdere la speranza”.

Una settimana fa l’Iran ha nuovamente attaccato Israele, che sentimenti vivete a Gerusalemme?

“Poche ore prima dell’attacco, le autorità municipali avevano diffuso nuove norme di condotta in caso di lancio di missili, chiedendo di mantenere la prudenza. Sono state vietate celebrazioni e manifestazioni con un’alta partecipazione di persone. Nonostante ciò, a Gerusalemme siamo stati spettatori di un attacco non direttamente rivolto alla città. Per quanto ho potuto capire, il target dei missili non era civile, ma militare, e di fatto in tutto Israele non ci sono state vittime civili né danni gravi. La mattina seguente la vita ha ripreso lentamente la sua routine, un certo numero di negozi ha aperto, e la quotidianità di questa città è continuata, come sempre, in modo surreale, come se tutto ciò che accade sia assolutamente normale”.

La Chiesa Cattolica di Terra Santa come affronta i fatti?

“La Chiesa cerca sempre di portare un messaggio di pace. Il patriarca di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, già diversi giorni fa aveva indetto per il 7 ottobre una giornata di preghiera, di digiuno e di penitenza per invocare la pace. Noi cristiani cattolici abbiamo il delicato compito di supplicare la ragionevolezza da entrambe le parti, perché solo in questo modo si potrà raggiungere la pace vera. Ciò comporta uscire dalla logica della “vittoria” e della “sconfitta”.  Noi vorremmo che la Terra Santa possa essere un luogo di condivisione, dove chiunque lo desideri possa vivere in pace”.

Quanto lontani siamo da questo concetto di pace?

“Ancora molto, perché molti, purtroppo, da una parte e dall’altra, pensano che questa terra debba essere di qualcuno in modo esclusivo. Ciò genera il rifiuto, l’odio e il ricorso alla violenza per allontanare l’altro e dimostrare il proprio diritto di proprietà. Purtroppo, più atti di violenza vengono commessi, da una parte e dall’altra, più aumenta la ritorsione che, illusoriamente, si pensa possa pareggiare il bilancio, e questo si traduce in nuovi lutti e distruzione, che nuovamente chiameranno vendetta. Ci tengo però a concludere che, nonostante la guerra alimenti sentimenti di odio reciproco, molte persone sono stanche di vivere nell’incertezza e nella paura, e ripongono le proprie speranze nella pace”.