Un nuovo rapporto di Amnesty International intitolato “As good as dead’ The impact of the blasphemy laws in Pakistan” prende posizione contro le leggi imposte dal governo di Islamabad contro le minoranze religiose. Il Pakistan, stato dell’Asia meridionale affacciato sul golfo di Oman, è il secondo Paese con la maggioranza musulmana più popolosa ed, in particolare, la seconda più grande popolazione sciita del mondo dopo l’Iran. Circa il 97,0% dei pakistani si professa musulmano; il restante è equamente diviso tra induisti e cristiani, con circa 2.800.000 fedeli per ciascuna delle due fedi religiose.
La costituzione pakistana tutela, almeno sulla carta, le minoranze che, tra l’altro, sono espressamente riportate anche sulla bandiera nazionale: la banda bianca su sfondo verde rappresenta proprio la parte di popolazione diversa dai mussulmani.
La legge di blasfemia è composta da tre articoli del codice penale pakistano che puniscono con l’ergastolo o la pena di morte il vilipendio al Corano, all’islam e al Profeta Maometto. E’ stata introdotta dal presidente Muhammad Zia-ul-Haq, in carica dal 1977 al 1988, ed è entrata in vigore nel 1986. Attualmente, è in revisione al Senato.
“Ci sono prove schiaccianti che la legge sulla blasfemia viola i diritti umani e incoraggia le persone ad applicarla per loro tornaconto”, spiega Audrey Gaughram, direttrice del programma “Temi globali” di Amnesty International. “Una volta che una persona viene accusata – prosegue – il sistema le offre ben poca protezione, la presume colpevole e non la tutela da coloro che vogliono usarle violenza”.
Il rapporto spiega come le persone accusate di blasfemia portino avanti “una lotta impari per vedersi riconosciuta l’innocenza”. E, anche se vengono prosciolte e rilasciate, dopo possono ancora subire minacce di morte. Il documento di Amnesty osserva che, una volta registrata una denuncia per blasfemia, la persona accusata può essere arrestata anche senza che la polizia verifichi se la denuncia è fondata. Piegandosi alla pressione di folle infuriate e di leader religiosi estremisti, spesso la polizia trasmette il caso a un magistrato senza compiere le opportune indagini e verificare le prove. Inoltre quando l’accusa è formalizzata, il rilascio su cauzione può essere negato e “si prospetta un processo dai tempi lunghi e iniquo, come nel noto caso di Asia Bibi, condannata a morte nel 2010″ e oggi in attesa del giudizio della Corte Suprema.
E’ ben noto il fenomeno, spiega il testo pubblicato da Fides, per cui gruppi o singole persone si fanno giustizieri “minacciando o uccidendo le persone accusate e quelle a loro legate, come i familiari, gli avvocati e i membri della comunità di appartenenza”. Anche gli operatori del sistema giudiziario, come magistrati, avvocati, agenti di polizia, sono intimiditi e non possono operare in modo efficace e imparziale.
Poiché la legge sulla blasfemia viola apertamente gli obblighi internazionali del Pakistan di rispettare e proteggere una serie di fondamentali diritti umani, come le libertà di religione, credo, opinione ed espressione, Amnesty ne chiede al Governo l’abrogazione. Inoltre, ricordando che la legge è spesso strumentalizzata per colpire le persone più vulnerabili come i bambini, le persone con disabilità mentale o gli appartenenti alle minoranze religiose, la ong internazionale invita Islamabad ad adottare l’adozione di nuove norme che rispettino in pieno il diritto internazionale.