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Smart Working, Raffaele Bonanni: “Mancano coperture legislative e contrattuali”

Intervista a Raffaele Bonanni, autore del libro "Smart Working, tra crisi e innovazione"

Smart working, cultura digitale, didattica a distanza, promozione sociale e formazione permanente. Sono questi alcuni dei temi affrontati nel libro “Smart Working. Tra crisi e innovazione” (Bertonieditore) di Raffaele Bonanni e Maurizio Danza. Per capire come questa nuova modalità di lavoro, entrata prepotentemente nelle nostre vita a causa della pandemia causata dal coronavirus, abbia influito sulla vita dei lavoratori, cosa il governo debba fare per aiutare quanti ancora svolgono la propria professione in questa modalità, Interris.it ha intervistato Raffaele Bonanni, professore straordinario di diritto del lavoro, opinionista e scrittore.

“Smart working tra crisi e innovazione” è il titolo del suo libro scritto insieme a Maurizio Danza. Da cosa nasce?
“L’idea mi è venuta durante il lockdown che ci ha costretto ad utilizzare tecnologie di cui eravamo in possesso già da dieci anni, ma che non siamo mai stati capaci di sfruttare. Questo a causa anche della nostra impostazione culturale. Il lockdown, senza dimenticare la tragedia delle migliaia di vittime, ha portato alcuni vantaggi: ci ha riallineato con le tecnologie; ci ha fatto superare spazio e tempo; ha permesso di riavvicinarci alle persone care che sono lontane; anche sul piano religioso abbiamo incrementato la partecipazione. Si è lavorato più e meglio, guadagnando tempo e diminuendo lo stress. La promessa del digitale come fattore sconvolgente e rivoluzionario della nostra vita, è stata mantenuta”.

smart working

Come ha influito lo smart working sulla vita dei lavoratori italiani?
“Credo che i lavoratori ci abbiamo guadagnato, soprattutto in fatto di tempo a disposizione per la famiglia, gli hobbies, per lo sport, ma anche per dormire, in questa vita frenetica ognuno di noi sottrae tempo al riposo. Questo ha messo loro in condizione di superare dei dossi molti importanti, basta pensare a chi deve spostarsi in città: risparmia tempo, non deve trovare parcheggio, così si accumula meno stress. Sono circa 4 milioni i lavoratori che sono in modalità di smart working lavorano e hanno lavorato senza nessuna copertura legislativa e senza copertura contrattuale. Bisognerebbe rimediare, ma vede che su questo c’è molta disattenzione da parte del legislatore che deve intervenire. Anche le parti sociali dovrebbero affrettarsi. Non stiamo parlando di una cosa di poco conto. Il nodo più importante è tramutare l’orario di lavoro classico in valutazione del progetto, perché si lavora non considerando più l’orario ma il progetto”.

Sarebbe possibile realizzare un piano per uno smart working più inclusivo?
“Sì, certo. Ci sono molte lavorazioni che si possono fare in questo assetto. Ho letto un’interessante intervista del sindaco di Milano, Sala, che considero una persona molto aperta, ma sono rimasto colpito dalle sue dichiarazioni. Ha affermato, infatti, che è importante ritornare al tradizionale nel lavoro, quasi considerando lo smart working qualcosa che ha forzato la situazione e che ha svantaggiato i lavoratori. Non sono d’accordo, ora si tratta solo riconsiderare gli aspetti che dicevo prima”.

Molte aziende, anche dopo la fine del lockdown, hanno scelto di continuare con lo smart working, non c’è il rischio di penalizzare le relazioni sociali?
“E’ un grande tema. La società moderna è caratterizzata da una serie di rapporti umani, personali, di questo tipo. Mia figlia si trova a circa dieci mila chilometri di distanza e la vedo online. L’emozione, il rapporto, non cambia. Se non riuscissimo a vederci online sarebbe un problema. Noi sostanzialmente siamo degli ‘animali’ e abbiamo bisogno di toccare, odorare i nostri affetti. Vedersi due, tre volte online e una front penso che sarà la normalità. Va molto bene l’online, ma bisogna conservare anche la possibilità di incontrarsi faccia a faccia. La pandemia e il conseguente lockdown ci hanno permesso di riallinearci allo sviluppo tecnologico che, come detto in precedenza, non abbiamo utilizzato in pieno per motivi culturali”.

Secondo lei, la scuola come esce dalla prova coronavirus?
“Non molto bene. Perché c’è un’incapacità culturale di immedesimarsi in questa modalità di lavoro. Questo riguarda anche gli insegnanti. La migliore insegnante, ben preparata sia sul piano pedagogico che psicologico, oggi deve avere una cultura digitale. Si dovrebbe avere un piano straordinario di preparazione per i docenti per incrementare le loro competenze a livello tecnologico. Il burocratismo della scuola italiana e la scarsa capacità degli insegnanti di avere questa cultura digitale, ma vorrei sottolineare che non è colpa loro, alla fine non ci ha permesso di essere pronti per gestire una fase di lockdown. L’istruzione è la cosa più importante che ci possa essere in una comunità. E per i bambini perdere un periodo di scuola è un problema, è una lacuna difficile da recuperare”.

Il governo cosa dovrebbe fare per agevolare i lavoratori in smart working?
“Dovrebbe diffondere la banda larga dappertutto. A Roma ci sono zone intere dove non c’è la banda larga. Questa infrastruttura immateriale deve essere una volta per tutte definita. Stiamo parlando di tecnologie mature, non si capisce perché siamo in così forte ritardo. Il governo deve dotare di attrezzature digitali le scuole per una didattica all’altezza dello sviluppo tecnologico in corso e del forte cambiamento in atto che richiede enormemente competenze digitali. Gli insegnanti poi, devono essere coinvolti in un percorso di grande specializzazione digitali (siamo al 72 posto su 79 tra i paesi industrializzati per preparazione digitale..fonti Ocse) ma dovrebbero anche essere pagati di più (quelli italiani sono i meno pagati in Europa)”.

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