“Sindrome del papavero alto”: origini, conseguenze individuali e sociali

L’invidia compromette le relazioni sociali poiché l’altro è visto sempre in un’ottica competitiva, con l’obiettivo di superarlo e vincerlo. Ne risentono, dunque, i rapporti sociali di ogni tipo, da quelli in famiglia, a scuola, tra pari e nei luoghi di lavoro

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La “sindrome del papavero alto”, universale e atavica per l’essere umano, riguarda chi, in occasione del successo altrui, prova invidia e risentimento al fine di sminuirne la portata. In merito all’origine della definizione, vi sono alcune versioni, fra queste è accreditata quella di Tito Livio. Lo storico narra di Tarquinio il Superbo che, come consiglio per conquistare Gabri, indicò al figlio (Sesto Tarquinio) la necessità primaria di eliminare i personaggi più prestigiosi della città. Lo stesso re, noto per l’autoritarismo dimostrato, pur di livellare i romani, si sarebbe prodigato in un evidente atto simbolico, consistente nel tagliare, in un campo, ogni papavero che eccellesse.

I regimi tendono a livellare i sudditi, per evitare pericolosi innalzamenti di singoli. Non solo il potere ma anche l’invidioso vorrebbe vivere in un campo di fiori allo stesso livello, in cui a primeggiare sia lui stesso. La metafora del “papavero alto” riguarda ogni essere umano. Distinguerla per genere, età e altre categorie sociali, provoca ulteriori divisioni e lacerazioni. Non vi è automatismo nel confronto donne/uomini, giovani/anziani. Può verificarsi anche tra più uomini o più donne fra loro. Nell’attuale situazione sociale, già provata e conflittuale, appare pretestuoso e “perfido” aggiungere altre divisioni: non è l’approccio giusto per risolvere la sindrome.

In una società ipercompetitiva e selettiva, l’invidia (seppur non confessata) si manifesta in molteplici occasioni e in ogni tipo di relazione. Chi la prova, nutre un risentimento verso l’altro, non accetta le “presunte” e minori opportunità a lui fornite: le ingiustizie che riceve dal Creatore. Si tratta di una delle condizioni più misere, fisicamente, moralmente e spiritualmente, in cui può trovarsi un essere umano.

Il 28 febbraio scorso, durante l’Udienza Generale, Papa Francesco sottolineò “Il volto dell’invidioso è sempre triste: lo sguardo è basso, pare che indaghi in continuazione il suolo, ma in realtà non vede niente, perché la mente è avviluppata da pensieri pieni di cattiveria. L’invidia, se non viene controllata, porta all’odio dell’altro. […] Alla sua base c’è un rapporto di odio e amore: si vuole il male dell’altro, ma segretamente si desidera essere come lui. L’altro è l’epifania di ciò che vorremmo essere, e che in realtà non siamo. La sua fortuna ci sembra un’ingiustizia: sicuramente – pensiamo – noi avremmo meritato molto di più i suoi successi o la sua buona sorte! Alla radice di questo vizio c’è una falsa idea di Dio: non si accetta che Dio abbia la sua ‘matematica’, diversa dalla nostra”.

L’invidia rappresenta uno dei sette vizi capitali ed è stata oggetto di indagine da sempre, da parte di filosofi, teologi, storici, scrittori, musicisti. Dante Alighieri, nel I canto dell’Inferno, identificandola con la lupa, scrive “Questi la caccerà per ogne villa/fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno/là onde ‘nvidia prima dipartilla” (Un cane, o un salvatore, caccerà la lupa per rimetterla nell’inferno da cui l’invidia la fece uscire). Il poeta riprende il tema nel XIII canto del Purgatorio; qui, le anime, impossibilitate a vedere poiché gli occhi sono cuciti con il fil di ferro, si trascinano tra loro, appoggiate l’una all’altra.

Massimo Desideri, saggista, è l’autore del volume “Il grado zero dell’uomo” (sottotitolo “L’omologazione del pensiero nella società tecnologica avanzata del XXI secolo”), pubblicato da “Luoghinteriori” nel maggio scorso. Parte dell’estratto recita “L’uomo non è più il consumatore in senso classico, ma sono le cose a usare lui […] Solo la cultura, personalmente coltivata e acquisita, può ancora salvare la nostra intelligenza e la nostra autonomia di giudizio”.

È fondamentale rilevare le possibili prospettive di cambiamento, soprattutto in merito alle nuove generazioni, agli uomini e alle donne di domani, a cui affidare la speranza di una società più solidale, inclusiva, meritoria e non omologante. Il 4 aprile scorso, è stato pubblicato il rapporto “Giovani 2024: il bilancio di una generazione” (realizzato dall’Istituto Eures Ricerche Economiche e Sociali, in collaborazione con il Consiglio Nazionale dei Giovani e l’Agenzia Italiana per la Gioventù), visibile al link https://agenziagioventu.gov.it/wp-content/uploads/2024/04/2024_01_RAPPORTO-GIOVANI_REPORT-COMPLETO_4_4_2024.pdf. Fra i numerosi dati, si legge quanto segue. “Il campione colloca (infatti) in cima alla graduatoria il lavoro stabile, indicato dal 65,7% degli intervistati come pre-condizione indispensabile per poter immaginare un reale percorso di cambiamento (e di status). […] Tale passaggio presuppone l’avveramento di altre condizioni materiali, quale quella di trovare una casa a prezzi accessibili (33,7% delle indicazioni) o la disponibilità di risparmi per poter fronteggiare eventuali imprevisti (20,6%). Circa un terzo del campione, prima di poter lasciare la casa paterna/materna attende di terminare il percorso di studi (36,7%), l’11,6% di trovare un lavoro anche saltuario e il 9,1% di avere una relazione stabile (evidentemente prefigurando l’uscita di casa come subordinata a una scelta di coppia). […] Secondo l’opinione di tre intervistati su quattro (il 74,7%) gli adulti comprendano ‘poco’ (61,1%) o ‘per niente’ (13,6%) le esigenze e il vissuto dei giovani”.

Attraverso una duplice forzatura, Indro Montanelli sintetizzava “Quando un italiano vede passare una macchina di lusso il suo primo impulso non è averne una anche lui, ma tagliarle le gomme”.

L’aforisma sembra calcato per cogliere l’attenzione. In effetti, non si evidenzia un’esclusività italica: il “sentimento” malevolo in questione è diffuso ovunque. In più, la generalizzazione è un automatismo non veritiero poiché non tutti giungono alla considerazione di bucare gli pneumatici.

La critica nei confronti di chi emerge, spesso abbina una dose di astio personale a una paura che possano emergere i propri limiti; presenta, quindi, una sorta di valenza attiva e passiva. Si genera un meccanismo di invidia in cui si focalizza più il rancore per il successo altrui che la soddisfazione per aver raggiunto un obiettivo personale. Chi ne soffre si augura la sciagura dell’altro e la possibilità che le condizioni si invertano. Il “vizio” è antico, connaturato all’essere umano. Nell’epoca contemporanea, contrassegnata dall’immagine, dai social, in cui è più visibile, e plateale, la condizione economica altrui, la sindrome riceve maggiore accelerazione.

In una società semplice, con meno “vetrine”, come quella del passato, il fenomeno risultava più circoscritto e legato a esperienze della cerchia familiare, degli amici o di casi specifici e noti. Ora, anche una fotografia sui social, appositamente inserita per mostrare al mondo la propria felicità e il successo, provoca risentimento. La civiltà dei consumi, del successo, dell’immagine vincente, poggia su alcune contraddizioni. L’essere umano, infatti, ha paura di essere escluso e considerato diverso dalla massa, per cui lotta affinché sia conforme e accettato. La conformità, per molti, tuttavia, non basta: occorre innalzarsi e farsi ammirare con la convinzione di essere l’epicentro di riferimento. Altro discorso è il lavoro intellettuale e manuale di chi, senza vanagloria, cerca di rendere più “alti” dei concetti e delle pratiche di volontariato, cultura e solidarietà al fine di innalzare tutti e non rimanere appiattiti da istituzioni e burocrazia.

L’emergere e lo stagliarsi dalla massa ha implicato, da sempre, accorgimenti sociali per evitare possibili minacce. Una comunità che riconosce il merito non teme l’elevazione sociale (o un papavero più alto) poiché la presuppone in buonafede e legata a degli obiettivi di crescita personali e, nel traino, collettivi. A esempio, nel caso in cui un ricercatore dovesse individuare un rimedio o un medicinale volto a eliminare una pericolosa malattia, questo dovrebbe suscitare l’ammirazione e il riconoscimento di tutti, pazienti, colleghi, parenti, amici; si tratterebbe di un’elevazione personale con conseguenze positive per tutti.

Il livellamento imposto e generalizzato, condotto per consolidare il potere, perde i contributi, di diverso ambito, che il singolo potrebbe offrire alla comunità. Un potere che si dovesse sentir più sicuro livellando, in realtà perde il potenziale arricchimento di ogni cittadino; si sente forte ma è più debole.

Anziché detestare l’altro che ha ottenuto dei successi è auspicabile un atteggiamento sobrio, equilibrato e di stima, volto a promuovere le capacità personali e a progredire in un sano percorso che non esclude l’affermazione del prossimo. Vivere nel rancore e in una condizione pericolosa di frustrazione, conduce verso una negazione del proprio valore, dell’essere persona, di rifiuto del dono concesso, fino alla totale disistima, assenza di creatività e annullamento della personalità.

È opportuno un esame di coscienza in cui sviluppare la capacità del confronto non competitivo e patologico; al tempo stesso è necessaria una visuale ampia e non a 180° gradi secondo il proprio metro di giudizio. Occorre equilibrio nella (indispensabile?) bilancia del dare/avere senza recriminare e misurare come “ingiustizia” il passo che separa dal prossimo.

L’omologazione culturale, imposta o perseguita, determina la cancellazione dell’identità di esseri umani concepiti e realizzati come eguali. Ogni individuo è un essere unico e irripetibile. In tale diversità si fonda la sua ricchezza e, nel confronto con le peculiarità altrui, si pongono le basi per un innalzamento reciproco. Il resto è divisione, guerra.