Il progetto denominato Cafè21 ha preso vita Varese nel 2014 con il pregevole obiettivo di favorire l’inserimento lavorativo di ragazze e ragazzi con sindrome di Down. In particolare, il sopracitato progetto, ha preso vita grazie all’impegno della Cooperativa Sociale La Corte coordinata dalla Presidente Mariella Di Naro, dal Vicepresidente Dottor Pietro Giuliani – in qualità di referente del presente progetto che, da poco è divenuto a sua volta Presidente della sopracitata Cooperativa – e ad un gruppo di genitori di ragazzi con sindrome di Down. Il frutto di questa azione sinergica si è esemplificato attraverso l’apertura di un bar – denominato appunto Cafè21 – ubicato nel centro di Varese, precisamente a Palazzo Estense, in quello che precedentemente era il bar del Comune. L’obiettivo che si pone questa lungimirante azione è quella di favorire l’inclusione lavorativa e nel contempo sradicare gli stereotipi negativi che ancora oggi permangono nei confronti della disabilità, a tal proposito, questo si esemplifica già partire dal nome e dal logo del locale: il disegno rappresenta una tazzina su un piattino vista da una prospettiva diversa, questo vuole indicare l’apertura di un altro tipo di bar che vuole essere un luogo di inserimento lavorativo, di formazione e soprattutto un laboratorio di uguaglianza per le persone affette da sindrome di Down; in seconda istanza il cucchiaino rappresentato nel disegno intende formare uno sorriso con l’obiettivo di simboleggiare la felicità dei ragazzi che lavorano in autonomia e sono felici. Infine, il numero 21 ed i chicchi di caffè posti in alto nel logo intendono rappresentare la trisomia, ossia la cosiddetta coppia di cromosomi in più dei ragazzi affetti da sindrome di Down. Riguardo questo fulgido esempio di inclusione, In Terris ha avuto l’onore di intervistare Claudio Albini, padre di Francesca che insieme ad Alessia, Simone e Anna lavorano all’interno di Cafè21. A tal proposito è utile sottolineare che, i quattro genitori dei ragazzi sono soci della Cooperativa La Corte e svolgono una luminosa opera di volontariato al fianco dei propri figli nel sopracitato bar.
– Come nasce e quando nasce la vostra idea di Cafè21?
“E’ un’iniziativa che parte da un gruppo di genitori, noi in particolare siamo quattro famiglie, l’idea e nata da Pinuccia, mamma di Alessia, che ha avuto quest’idea insieme all’insegnante di sostegno di sua figlia, la Professoressa Antonella Di Paola. Successivamente, sapendo che presso il comune c’era uno spazio libero, occupato in precedenza da un altro bar all’epoca dismesso, abbiamo messo in moto l’idea di far lavorare i nostri ragazzi, nella fattispecie un anno prima dell’apertura. Vi sono stati poi i primi contatti con le istituzioni competenti, all’epoca a Varese il sindaco era il Dottor Attilio Fontana e, così facendo, un anno e mezzo dopo siamo riusciti ad aprire il bar nella predetta struttura. L’unico ulteriore passo da compiere era quello di trovare una cooperativa di tipo B che potesse stipulare l’accordo con il comune, a questo punto ci siamo rivolti alla Cooperativa Sociale La Corte di Varese, da noi già conosciuta, quanto i nostri ragazzi svolgevano lì altre attività, loro si sono resi immediatamente disponibili e siamo quindi giunti all’apertura di Cafè21 nel 2016. L’aspetto più interessante di questa esperienza, in cui sono impegnati quattro ragazzi con sindrome di Down, tre donne e un uomo, e che gli stessi sono regolarmente assunti con un contratto di lavoro regolare ed ufficiale, quindi fanno un lavoro vero con i diritti ai doveri di tutti i lavoratori, questo è il grande successo di questa esperienza. Il bar è inserito all’ interno del Palazzo Estense, dove ha sede il governo della Città di Varese, quindi oltre alla clientela di passaggio, vi è una clientela che spezie dai dipendenti comunali ai politici, è un ambiente piccolo e di servizio ossia deve sottostare a certi vincoli di orario, il quotidiano è fatto di caffè ma sono stati organizzati anche dei catering e dei rinfreschi. il bar è stato chiuso a lungo, in due momenti diversi ed stato riaperto al pubblico lunedì scorso”.
-Come può il lavoro cambiare la vita delle persone con disabilità e nel contempo favorire un percorso di autonomia?
“Facendo ciò che abbiamo fatto noi, ossia coinvolgendo i ragazzi e facendo fare loro un lavoro vero. In particolare, dopo il cambio del nostro fornitore di caffè, i nostri ragazzi sono stati istruiti ed hanno fatto tutti gli stage necessari per imparare ad utilizzare le macchine del caffè, questo li ha fatti sentire coinvolti e responsabilizzati come un lavoratore a tutti gli effetti. Naturalmente essi sono assistiti, attualmente vi è Donatella Terreni, una ex barista che – in qualità di esperta del gruppo – segue i ragazzi e, oltre a ciò, nel corso del tempo, vi sono state diverse studentesse di Scienze dell’Educazione con un indirizzo focalizzato sulla disabilità ed altre ragazze giovani che vogliono fare esperienza in questo ambito che hanno assistito i ragazzi. Intorno a loro vi sono delle persone che li seguono, perché loro hanno dei tempi di risposta più lunghi ed hanno qualche difficoltà nella gestione del denaro, però hanno imparato a fare benissimo il caffè. Mia figlia Francesca, ad esempio, è una ragazza felice perché il Cafè21 l’ha trasformata in termini di autostima, senso di appartenenza e contatto con le persone; in quanto, facendo un lavoro di barista a tutti gli effetti ella si sente coinvolta. Bisogna far capire che anche le persone con disabilità, compatibilmente con i loro limiti e come un’assistenza adeguata, possono dare molto. È evidente che non si può pensare di fare business sulla disabilità, però bisogna dare alla struttura un sostegno finanziario ed economico in modo tale che, alla fine, i conti tornino perché è un’attività commerciale a tutti gli effetti”.
-Secondo Lei come si possono sradicare gli stereotipi che ancora oggi permangono nei confronti della disabilità?
“Le posso rispondere a questa domanda in due modi: il primo è con un certo distacco, quando ancora non ero papà di Francesca, quindi con un certo distacco; il secondo invece e quello di papà di una ragazza con disabilità. Quello che io non sopporto e ciò verso cui punto il dito e il pietismo, bisogna evitare di entrare in quella spirale in cui si definiscono le persone con disabilità poverini, sono persone normali e lavoratori quindi essi vanno trattati come tutti gli altri e bisogna evitare di definirli handicappati. È la persona che conta non la disabilità, ho avuto un’attività in proprio per molti anni ed ho constatato in prima persona che la differenza tra un’azienda e un’altra la fanno le persone che la compongono non l’attività che svolgi, i successi delle aziende sono fatti dagli uomini non dai mezzi, questo vale anche per chi decide di avvalersi della professionalità delle persone con disabilità, tanto è vero che vi sono anche dei casi in cui la stessa, dal punto di vista lavorativo, rende molto di più di una persona normodotata. Noi, dopo un primo periodo di difficoltà, nel luogo dove abbiamo sede siamo divenuti la mascotte perché la gente ha capito e siamo orgogliosamente ben voluti”.
-Quale messaggio vorrebbe lanciare alle persone che si approcciano per la prima volta per la disabilità?
“E’ necessario togliere la diffidenza ed essere più disponibili perché si scopre un mondo che ha moltissime risorse anche se all’apparenza non sembrerebbe. Soprattutto i ragazzi con sindrome di Down hanno una sensibilità molto accentuata che – molto spesso – noi cosiddetti normodotati non abbiamo e quindi, è necessario avvicinarsi a questo mondo con una maggiore apertura mentale. Chi vuole approcciarsi alla nostra realtà oppure ad altre dove vi sono persone con disabilità – con il giusto atteggiamento mentale – sicuramente proverà molto beneficio perché i ragazzi sono spontanei e non hanno nessun retropensiero come potremmo averlo noi, la loro bellezza è proprio questa. Noi siamo felici e orgogliosi di aver portato avanti questa esperienza, nonostante le difficoltà che esistono e che ci saranno; a titolo esemplificativo lunedì scorso, quando abbiamo riaperto siamo stati accolti con felicità dalle persone, pertanto auspico che questa esperienza possa essere replicabile”.