La “Sindrome di Calimero” rappresenta una condizione di cronica lamentela, in cui ci si sente sempre oggetto di ingiustizie, soprusi o episodi sfortunati e, per sfuggire ai problemi, si assume un’interpretazione erronea della realtà, spesso di discolpa e deresponsabilizzazione dalle proprie azioni e idee. I tempi della sfortuna sono ugualmente distribuiti tra passato, presente e futuro.
La definizione del fenomeno prende spunto dal personaggio protagonista di alcuni spot degli anni Sessanta: Calimero, il pulcino (non riconosciuto dalla mamma perché sporco di fuliggine) a cui accadono episodi spiacevoli e che si lamenta continuamente, rispondendo “È un’ingiustizia però!”.
La sindrome ha conosciuto maggiore risonanza quando è stata citata, nell’agosto 2023, dalla premier Meloni, a proposito della presentazione delle Olimpiadi e Paralimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026, come incentivo a credere nelle possibilità del Paese e non trincerarsi dietro un atavico pessimismo nazionale.
Il vittimismo rappresenta un atteggiamento e un comportamento continuamente in atto, cronico e clinico quando non si tratti di un semplice sfogo isolato che rientri, fisiologicamente, nella natura umana senza costituirne, tuttavia, una patologia.
La lamentela può divenire un principio e uno stile di vita, da attuare sistematicamente, al di là di una reale motivazione alla base. Un atteggiamento così monotematico e senza speranze, attuato anche per attirare attenzione verso di sé, può, al contrario, indispettire l’altro che non è disponibile ad ascoltare. La comunicazione stessa, risulta come un monologo, anziché un dialogo, per niente costruttivo. Diventa un codice comunicativo a se stante, un linguaggio unidirezionale, inerte.
In questo caso, si tratta di una forma strumentale di egoismo, può verificarsi anche nell’età infantile. Eventi traumatici vissuti in famiglia, da bambini o ragazzi, oppure rapporti stressogeni con i pari, possono alimentare il senso di scoraggiamento.
Una deriva tipica del vittimismo è quella in cui, l’autocommiserazione sfocia in una sorta di ricatto nei confronti di parenti e amici, in cui si pretendono numerose attenzioni fino a un limite estremo, quasi tirannico, per generare sensi di colpa. Da questo punto di vista, rappresenta un comodo ripiego per ottenere vantaggi. Soddisfare tutti i capricci del “tiranno” significa, in ogni caso, certificare il suo stato e condannarlo a una vita passiva e infelice, nonostante i vantaggi effimeri su cui può lucrare.
Le ripercussioni si avvertono in tutte le relazioni sociali, dalla famiglia, ai pari, alla scuola, al lavoro, nell’amore.
Chi soffre di vittimismo, squilibra le dinamiche relazionali, dimostra immaturità, deresponsabilizzazione e alimenta problematiche inesistenti o ne crea di inutili. La paura pervade anche le situazioni in cui si prova a intessere una relazione sentimentale ma, focalizzando solo aspettative negative, si rinuncia in partenza, alimentando lo stato di solitudine. Il meccanismo ricorsivo alimenta, così, la negatività che si teme in origine. La presunta “soluzione” ai problemi si concretizza nell’evitarli e subirli senza mostrare capacità di risoluzione, di inventiva.
Il 29 agosto 2021, durante l’Angelus, Papa Francesco precisò “Spesso pensiamo che il male provenga soprattutto da fuori: dai comportamenti altrui, da chi pensa male di noi, dalla società. Quante volte incolpiamo gli altri, la società, il mondo, per tutto quello che ci accade! È sempre colpa degli ‘altri’: è colpa della gente, di chi governa, della sfortuna, e così via. Sembra che i problemi arrivino sempre da fuori. E passiamo il tempo a distribuire colpe; ma passare il tempo a incolpare gli altri è perdere tempo. Si diventa arrabbiati, acidi e si tiene Dio lontano dal cuore. […] Non si può essere veramente religiosi nella lamentela: la lamentela avvelena, ti porta alla rabbia, al risentimento e alla tristezza, quella del cuore, che chiude le porte a Dio”.
Il professor Daniele Giglioli è l’autore del testo “Critica della vittima”, pubblicato da “Nottetempo” nello scorso mese di aprile. Il volume “Analizza la sintomatologia della vittima contemporanea: ‘l’eroe del nostro tempo’. Tra le sue manifestazioni, la celebrazione ossessiva della memoria, il credo umanitario che mantiene ‘inermi i disarmati’ e ‘lascia intatti gli arsenali dei forti’, l’imperativo capitalista del diritto al benessere che si rovescia in frustrazione e inadeguatezza, la mitologia contemporanea della ‘cospirazione’: in ogni caso, la responsabilità del male è altrove, fuori da noi. […] L’autore indaga l’origine dell’ideologia della vittima e il consolidarsi odierno di una strategia della lamentazione che divide la società in rei e innocenti, vittime e carnefici”.
In tema di pessimismo e sfortuna, nel settembre 2021, il Codacons riportava alcuni dati, visibili al link https://codacons.it/tocca-ferro-tocca-legno-gratta-gratta-la-pandemia-ci-ha-reso-tutti-piu-superstiziosi-secondo-un-sondaggio-swg/ “Da un sondaggio Swg è emerso che, quest’anno, a ritenere di essere superstizioso è ben il quaranta per cento degli italiani. Il 5% confessa di esserlo sempre, il 35% solo in alcune situazioni. Di fatto, forse, quando serve. E se la percentuale è già alta, il dato diventa ancora più rilevante, quando si confrontano le cifre di questi mesi con quelle degli anni precedenti. A credere nella sfortuna, nel 2015, era il 36% dei connazionali. Nel 2017, il dato è salito al 37%”.
La solitudine è in un rapporto circolare con la sindrome: la nutre e riceve conferma dello stato in cui vuole precipitare. La lamentela, che nasce dalla paura di essere esclusi, finisce per essere la sublimazione e la realizzazione pratica di tale timore.
La sindrome non ha, al momento, un riconoscimento clinico nel DSM V (l’ultimo Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), tuttavia presenta affinità con il Disturbo di ansia (o fobia) sociale, caratterizzato dalla paura delle interazioni sociali, della ridicolizzazione, della critica, a cui si “contrappongono” solo inadeguatezza e vergogna.
I tentativi di soluzione a quest’atteggiamento devono muovere da più direzioni. Chi ne soffre, è chiamato a uno sforzo collaborativo, di ascolto, per limare le proprie asperità, far crollare il muro costruito intorno e accettare “crepe” di verità e realtà. La prospettiva deve invertirsi: sia nel caso di eventi negativi reali o di quelli ingigantiti, occorre reagire e costruire un nuovo se stesso.
Una proposizione attiva anziché passiva, è la chiave per assumersi le responsabilità, essere co-artefici della propria esistenza e non gettare la spugna. La sfortuna cessi di essere la bandiera virtuale, di resa. Averla assunta a principio di vita, significa considerarla presente in ogni occasione e credere di vederla sventolare anche quando non c’è vento.
Isolarsi, convinti di essere preda di un mondo beffardo e cattivo, come martiri predestinati, significa non assumersi responsabilità e chiudersi sempre più in un’ottica individualistica. Lo sguardo, infatti, contempla solo le vicende personali e il vittimismo tende a porle come oggetto esclusivo delle riflessioni, escludendo il prossimo, la società circostante. L’alterità si rifiuta in blocco, perché inutile, dannosa e pericolosa. Tale atteggiamento esaspera e amplifica le problematiche personali ignorando quelle altrui; si altera e si inverte anche la percezione della gravità.
La società ipercompetitiva e selettiva, induce a un confronto sistematico, continuo, in cui alcune persone, più fragili e con meno autostima, ne subiscono il contraccolpo e cedono al fallimento. Il paradosso nefasto è che l’altro è visto solo come un elemento di paragone: non è un ausilio per una (reciproca) vita migliore, bensì un avversario da battere.
Il prossimo è visto come colui/colei che non comprende: non avviene un esame di coscienza personale bensì si preferisce giudicare le mancanze altrui. In presenza di una costante negativa assoluta e incontrovertibile, il “Calimero” non possiede capacità di autovalutazione, di riflessione su di sé e, di conseguenza, manca l’appuntamento con un intimo e proficuo esame critico.
La società dove è contemplato e riconosciuto solo il successo personale, contribuisce ad alimentare un senso di insicurezza e di fragilità a cui, tuttavia, contrapporre un abbandono, passivo, in balia degli eventi, con totale sfiducia nelle proprie capacità e nei propri oneri, è la risposta peggiore che si possa offrire. Il teologo Franz Xaver Arnold affermava “Sempre Dio salva l’uomo attraverso l’uomo”.
Verso il prossimo, invece, non si sperimenta ammirazione, dialogo, condivisione bensì solo invidia. Questa, oltretutto, è alimentata da una percezione falsata delle vite altrui considerate, al contrario della propria, come perfette. Il mondo virtuale dei social, imperniato su un’immagine esteriore di sola felicità e benessere, aumenta l’invidia percepita dalla persona lamentosa. Nei casi disperati, si assume, addirittura, la presenza di un atteggiamento pianificato dagli altri e da un presunto “destino” avverso.
Il perdente seriale scorge un orchestrare di strategie, un complotto, in cui gli altri, la società e il mondo combattono sempre e solo contro lui, destinato a divenire, quindi, un agnello sacrificale.
Assumere come principio di vita l’ingiustizia, traduce una concezione esclusivamente pessimistica e di sfiducia nei confronti del prossimo, senza appelli di sorta, nonché di infondato e blasfemo risentimento nei confronti di un Creatore che abbandonerebbe i figli a se stessi e che questi, duramente, da soli devono lottare per ristabilire la verità, la loro.