Duecento volontari dell’Associazione Sesta Opera San Fedele onlus di Milano ogni giorno portano il loro sostegno ai carcerati. Un universo particolare dove “c’è possibilità di resurrezione” secondo il presidente Guido Chiaretti.
Troppo spesso si tende a tralasciare le problematiche che investono il mondo carcerario che in Italia soffre di strutture vetuste e di un insostenibile sovraffollamento. Per questo, le attività dell’associazionismo aprono uno squarcio di luce sulle carceri italiane donando nuova speranza ai detenuti seguiti verso un percorso di necessaria rieducazione ai fini del reinserimento nella società.
L’intervista a Guido Chiaretti
In che modo la vostra associazione si prende cura dei detenuti?
“La nostra associazione ha quasi un secolo, è nata nel 1923 a San Vittore a Milano. Poi, ci siamo estesi ed abbiamo portato il nostro servizio di volontariato in altre carceri, man mano che queste sorgevano. Quindi: Opera, Bollate, nel Carcere minorile Beccaria e nel reparto speciale dell’Ospedale San Paolo. Ci occupiamo anche del mondo delle misure alternative, cioè sosteniamo quei condannati che scontano la pena sul territorio extra carcerario. Dentro le strutture le attività che svolgiamo sono innumerevoli: l’accoglienza tramite dei colloqui per i detenuti appena arrivati che è fondamentale per la differenza di approccio tra detenuto-volontario e detenuto-istituzione. C’è meno formalità”.
In Italia la funzione della pena è rieducativa. A suo avviso, è davvero possibile intraprendere un percorso di cambiamento per il detenuto?
“Questo è l’obiettivo che esiste sulla carta. Le istituzioni si muovono verso questo traguardo ma il risultato spesso è diverso. Dipende spesso dalle carceri: dove il reparto educatori funziona in maniera eccelsa il detenuto ha più probabilità di reinserirsi nella società in modo corretto. È qui che interviene il volontariato, il terzo settore. Noi interveniamo anche all’interno di una rete di associazioni al fine di dar vita a dei veri e propri percorsi di reinserimento che iniziano con delle attività di sostegno psicologico. Per le donne, per esempio, il problema principale è quello della mediazione dei conflitti. Si insegna perciò a controllare le reazioni emotive. Poi, si sviluppano anche delle attività dal carattere più pratico come l’avviamento al lavoro, l’accompagnamento per i detenuti che godono di permesso premio. Questi vengono ospitati all’interno di alcune strutture che mettiamo a disposizione e coadiuvati nella gestione della quotidianità: dalla salute ai rapporti con la famiglia. Percorsi che durano anche un anno”.
Che tipo di rapporto si instaura tra il volontario e il detenuto?
“Il rapporto è variabile. Alcuni utilizzano il volontario per delle richieste che rientrano nella nostra attività. In altri casi, nascono dei rapporti umani e di amicizia che continuano anche dopo l’espiazione della pena. Legami che durano per moltissimi anni. Ci sono anche dei detenuti che si sono reinseriti nella società con grande successo: trovano lavoro ed economicamente si sostentano. Dopo poco tempo, alcuni li abbiamo visti ritornare pronti a trasformarsi a loro volta in volontari con il desiderio di aiutare”.
Durante il lockdown qual è stata la difficoltà più grande per la vostra associazione?
“La difficoltà maggiore che abbiamo riscontrato è stata quella del blocco degli ingressi. Il contagio poteva provenire solo dall’esterno e si è deciso di adottare questa misura. Ma in alcune carceri come San Vittore non sono stati bloccati i servizi essenziali che promuoviamo come il vestiario o gli incontri. Ora, le cose si sono distese ma ancora non si possono svolgere tutte le attività di gruppo anche se i colloqui fortunatamente sono permessi. Durante la quarantena proprio la problematica dei colloqui è stata alla base dell’esplosione delle proteste nelle carceri. I detenuti più in salute hanno compreso la situazione di emergenza ma altri, come i tossicodipendenti, hanno fatto più fatica”.
Una volta fuori dal carcere, come sostenete queste persone?
“Quando il detenuto esce inizia una situazione davvero critica. Perché se non è stato preparato per tempo il reintegro nella società c’è il rischio concreto che le persone finiscano per commettere gli stessi reati per i quali sono state condannate. Pensiamo ad un detenuto che si sosteneva con lo spaccio: se dopo la galera non trova un’occupazione deciderà con molta probabilità di ricominciare a spacciare. È fondamentale il percorso di reinserimento che però inizia anni prima”.
Cos’è che tiene il fuoco del volontariato acceso all’interno della sua associazione?
“Il fatto più importante di chi fa volontariato seriamente all’interno del carcere è guardare il detenuto come una persona che ha sbagliato ma che può rimettersi in gioco. Questa è una piccola esperienza di resurrezione, sia per chi crede sia per chi non crede. Il carcere è un problema di tutta la società. Il detenuto può rinascere da un’esperienza di segregazione e allo stigma sociale che investe anche tutto il nucleo familiare. Questa visione ripaga di tutti i nostri sforzi”.