Sermonti: “Operatori umanitari, tra mancanza di risorse e zone a rischio”

Foto di Martina Martelloni (Intersos)

Portare aiuti umanitari alle persone in stato di bisogno nei tanti teatri di guerra, di disastri ambientali e di instabilità politica, Gaza, Sudan, Afghanistan, Ucraina, Somalia, Stati del Centroamerica, solo per citarne alcuni, è sempre più difficile, sia per motivi economici che di sicurezza. E gli aiuti sono oggi più necessari che mai: si è raggiunto il più alto numero di sfollati al mondo, una persona ogni 73, più di 250 milioni fronteggiano l’insicurezza alimentare acuta e 29 Paesi hanno registrato focolai di colera.

Risorse insufficienti

Tra il 2023 e il 2024 le persone in condizione di bisogno nel mondo sono passate da 339 milioni a meno di 300 milioni, quelle prevista da raggiungere con l’assistenza sono scese da 230 a 180,5 milioni e i fondi necessari da 51,5 miliardi di dollari sono diventati 46,4 miliardi. Recenti aggiornamenti parlano di 48,6 miliardi necessari per l’assistenza di 311 milioni di persone, ma nel luglio 2024 i fondi ammontano a 12,2 miliardi, l’11% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Se a una diminuzione del numero di persone bisogna da assistere si è arrivati grazie a maggiore efficienza nell’azione umanitaria e a criteri di valutazione per individuare i bisogni principali più stringenti, l’altro lato della medaglia sono le insufficienti risorse economiche. Secondo diverse associazioni umanitarie, tra cui Intersos, già l’anno scorso il finanziamento complessivo ha raggiunto solo poco più di un terzo del necessario, riducendo la possibilità di assistere le persone, inoltre le nuove definizione degli interventi prioritari rischiano di lasciare fuori persone.

Insicurezza

La violenza dei conflitti non risparmia nessuno. Il 2023 è stato un vero annus horribilis, con 595 operatori vittime di attacchi e 280 uccisi.  Africa centrale, Corno d’Africa e Medio Oriente, a cui si aggiunge anche l’Ucraina, le zone più pericolose. Soprattutto Striscia di Gaza, Sudan e Sud Sudan, dove al 7 agosto 2024 si sono registrati 137 dei 172 operatori umanitari uccisi secondo il conteggio globale provvisorio.

Foto di Martina Martelloni (Intersos)

L’intervista

Nella Giornata internazionale dell’aiuto umanitario, la cui edizione 2024 è dedicata a sollevare l’attenzione sugli attacchi agli operatori umanitari e sull’impunità dei responsabili, Interris.it ha intervistato Olimpia Sermonti, Deputy Regional Director East and Central Africa Region, Libya/Tunisia di Intersos, per capire cosa fa un umanitario e cosa spinge una persona a fare questa scelta.

Perché è importante celebrare la Giornata internazionale dell’aiuto umanitario?

“Perché è fondamentale parlarne.
Me ne rendo conto nel quotidiano quando mi vengono fatte domande su quello che facciamo o cosa vediamo quando siamo sul campo: nove volte su dieci la reazione è stupita. Pochi sanno cosa sta avvenendo ad esempio in Sudan – attualmente la crisi umanitaria con il maggior numero di sfollati interni al mondo. Risulta sempre complesso far capire quanto sia rischioso e difficile fornire aiuti umanitari quando non vengono stanziati i fondi per farlo e le zone prioritarie sono difficilmente raggiungibili, o ancora quando le parti in conflitto non rispettano il diritto umanitario internazionale, mettendo a rischio la vita non solo dei civili ma anche degli operatori sul campo. Tra il 7 ottobre 2023 e il 30 aprile 2024 sono stati uccisi 254 operatori umanitari solo a Gaza. In tutto il 2023 sono stati 280 a livello globale. Questi sono temi di cui è fondamentale parlare per ottenere un cambiamento di rotta. Non possiamo lamentarci della mancanza di azione da parte della comunità internazionale se le singole persone non sanno cosa accade nel resto del mondo, e quali siano i bisogni e i rischi ai quali ci confrontiamo quotidianamente”.

Spesso le ong operano sul campo anche con l’aiuto dei locali. Qual è il loro contributo?
“Un altro motivo per celebrare questa giornata, secondo me, è anche il riconoscimento che dobbiamo al lavoro svolto dal personale locale delle nostre missioni che sempre più spesso si ritrova in condizioni sempre più simili a quelle dei nostri beneficiari. Questi nostri colleghi rappresentano in assoluto l’elemento cardine dell’aiuto umanitario. Il personale locale è per noi condizione sine qua non di un qualsiasi progetto. A prescindere dalla condizione personale, lo staff locale è parte integrante della comunità locale ed è la fonte primaria di informazione, il primo ‘responder’ sul campo, quello che corre i rischi maggiori, e io credo che sia giusto che venga riconosciuto anche questo in questa giornata mondiale. Sono i numeri a determinarne ancora di più l’importanza di parlarne”.

Cosa motiva una persona a impegnarsi in ambito umanitario?

“Questa è una risposta molto soggettiva, posso parlare solo per me perché credo che la motivazione cambi da persona a persona. Impegnarsi in questo ambito però può significare molte cose, come dedicare essenzialmente la propria vita all’aiuto umanitario diventando operatore – che sia sul campo o negli hub di coordinamento – ma può anche essere quello di supportare economicamente le organizzazioni ed agenzie che operano in contesti di emergenza. Altra cosa che si può fare è partecipare e condividere le attività di advocacy che regolarmente vengono fatte, supportare la raccolta fondi, condividere messaggi chiave”.

Foto di Martina Martelloni (Intersos)

Qual è stata la sua motivazione?

“Ho scelto di fare questo lavoro da bambina, motivata da un concetto molto semplice: un diritto, se non è accessibile a tutti, non è un diritto ma un privilegio. Io ho avuto il privilegio di nascere, senza alcun merito, in uno dei Paesi più agiati al mondo, negli anni Novanta, in una qualsiasi famiglia della classe media italiana. Grazie a questo ho potuto studiare quello che volevo, scegliere la mia carriera, il mio compagno di vita e le mie passioni. Ho potuto curarmi gratuitamente e non ho mai vissuto una guerra finché non ho iniziato a fare questo lavoro. La maggior parte delle persone nel mondo non ha questo privilegio e la mia motivazione è quindi dettata da un senso di responsabilità. Ho scelto di usare il mio privilegio per contribuire a supportare chi, senza alcuna colpa, si trova in condizioni di necessità. Se la sorte avesse girato diversamente, al posto di ogni singola persona che assistiamo nei nostri progetti, avrei potuto esserci io, avrebbe potuto esserci mia sorella, mio nipote, i miei nonni, i miei genitori o i miei amici. Se fosse andata così, io avrei voluto che ci fosse stato qualcuno a prendersi cura di loro. La mia motivazione è fare quello che vorrei fosse fatto per me se non fossi stata così fortunata”.

In base all’ultimo Global humanitarian overview si è ridotto il numero di persone bisognose, ma secondo le organizzazioni umanitarie il sostegno economico ammonta a un terzo del totale richiesto. In questa cornice, quanto è difficile portare gli aiuti?

“Uno dei problemi principali con i quali ci confrontiamo è che il rapporto tra aumento dei bisogni e riduzione dei fondi è indirettamente proporzionato. Con l’aumentare delle crisi e dei bisogni, i fondi disponibili continuano a diminuire. La conseguenza positiva è che, non con poca fatica, diventiamo sempre più efficienti nel fare il possibile con i mezzi a disposizione. Quella negativa, invece, è che i fondi erano già insufficienti prima delle drastiche riduzioni degli ultimi anni e quindi non possiamo – matematicamente – rispondere a tutte le urgenze che identifichiamo. Inoltre, il dato in sé relativo alla riduzione dei beneficiari può essere fuorviante. Può diminuire il numero di persone bisognose, ma diventa sempre più faticoso e dispendioso raggiungerle a seconda delle stagioni, fornire il supporto necessario anche per costruire forme di resilienza per le comunità e cercare di evitare ricadute. Ad oggi, siamo costretti a ridurre all’essenziale ogni attività, a dover identificare i più vulnerabili tra i vulnerabili perché non possiamo servire tutti. E questo, per noi, è difficile non soltanto a livello pratico, ma anche a livello umano, è un peso che sentiamo tutti e che spesso riusciamo a trasformare in una spinta motrice per fare sempre meglio. Se dovessi rispondere con una sola parola alla sua domanda inziale: ‘Quanto è difficile?’, la mia risposta sarebbe: ‘Difficilissimo’”.

Dove opera Intersos?

“La nostra organizzazione è operativa in 23 paesi: 11 in Africa, cinque nei Medio Oriente, quattro in Europa, uno in America Latina e due in Asia”.

Foto di Martina Martelloni (Intersos)

Che tipi di aiuti porta?

“Il nostro compito è portare assistenza umanitaria nei contesti più difficili, cercando sempre di bilanciare le questioni etiche e i principi umanitari fondamentali. Il nostro aiuto si traduce in attività di protezione per le persone più vulnerabili, in quelle di salute, di nutrizione, assistenza legale e altre attività umanitarie di emergenza”.

Dove e quali sono le emergenze attuali che state fronteggiando?

“Il 2023 è stato un anno caratterizzato dalla continua mancanza di soluzioni politiche ai molteplici conflitti e violenze in corso, e questo ha significato anche un aumento dei bisogni umanitari. Siamo stati in grado di rispondere a diverse nuove emergenze: assistere i siriani dopo il terremoto di febbraio, intervenire tempestivamente per aiutare la popolazione colpita dalle massicce inondazioni e dal catastrofico impatto ecologico causato dal crollo della diga di Nova Kakhovka in Ucraina. Poi in Libia, dopo le inondazioni che hanno devastato la città di Derna. Abbiamo assistito migliaia e migliaia di persone in fuga dalla guerra in Sudan verso i Paesi confinanti come Ciad, Repubblica Centrafricana e Sud Sudan ed ora abbiamo finalmente iniziato il nostro intervento anche all’interno del Sudan”.

Lorenzo Cipolla: