Nella scuola ci sono macerie invisibili che impediscono al comparto di ripartire. Gli effetti della pandemia hanno travolto docenti e studenti. Sull’emergenza educativa e l’anno zero dell’istruzione Interris.it ha intervistato il professor Francesco Coltorti. Insegnante nelle scuole superiori e volontario dell’associazione “Libera“.
La vocazione della scuola
“Se alunne e alunni percepiscono che all’insegnante non piace stare lì con loro, l’insegnamento risulterà perlopiù fallimentare– evidenzia a Interris.it il professor Coltorti-. Al massimo riuscirà ad istruire nozionisticamente l’Altro. Incutendo timore con autorità, sanzioni, bocciature e ‘votacci’ esemplari. Sempre rigorosamente nella scala da 1 a 10. Credo che l’obiettivo educativo della scuola superiore (e non solo) sia tutt’altra storia. Facilitare e valutare sì un processo di istruzione generale e specifica. Ma soprattutto innestare una coscienza civica e politica nella persona. E in particolar modo mantenergli accesa una mezza idea di felicità individuale e collettiva da spendere. Diffondere. E condividere nel corso della sua esistenza”.
“Senz’altro un calo generalizzato dell’attenzione è riscontabile. Gli ultimi tre anni di pandemia hanno dato il colpo di grazia. La Didattica a distanza ha permesso di rispondere all’emergenza sanitaria. Ma non potrà (e non dovrà) mai sostituire la scuola in presenza”.
“Credo che vadano riviste fortemente le programmazioni scolastiche di buona parte delle discipline. E deve cambiare anche l’approccio generale all’insegnamento. Le studentesse e gli studenti che vivo io sono quelli della scuola superiore. Non c’è alcuna affezione nei confronti della scuola da parte loro. E anche chi se la cava bene la vive spesso solo nella dimensione di impegno. Sacrificio. E fredda scolasticità. Una scuola secondaria di secondo grado è già un istituto di indirizzo. Una strada che l’alunno/a in teoria ha scelto per quelle che ritiene siano le sue passioni e/o predisposizioni. Non può essere che la maggior parte di questi ragazzi poi riveli nel tempo il proprio smarrimento. Cioè di non trovare un interesse piacevole in almeno due o tre materie di studio all’interno del corso opzionato”.
“C’è il vantaggio di poter imparare mentre si insegna, come diceva Seneca. Ovvero l’opportunità di sentirsi investiti di un lavoro professionale certamente. Ma anche del miglior lavoro che si possa fare. Un insegnante educa, oltre al mero istruire. Solo se effettivamente sente il piacere di condividere le lezioni che propone ad alunne e alunni. E se vive uno stato di benessere mentre è in mezzo agli studenti. Quindi se è convinto seriamente di arricchire sé stesso mentre tutto ciò accade”.
“Certo ci sono delle situazioni frustranti. Delle scuole o delle classi molto più difficili di altre. Contesti e situazioni familiari di alunni tutt’altro che d’aiuto. L’insegnante deve mettere comunque in gioco la sua quota di responsabilità che in tutto questo può fare la differenza. Cercare di tirare fuori il meglio da chi si trova davanti. Certamente non ‘sorvegliare e punire’. Né entrare in puerile competizione con i colleghi. O sfogare le proprie insoddisfazioni personali nella relazione educativa”.
“La credibilità è più della metà dell’opera di insegnamento. Oltre alla preparazione sulla disciplina e la cultura generale. Il sapere, quando viene al massimo trasmesso anziché comunicato (per usare una terminologia tanto cara a Danilo Dolci), è in fondo portatore di analfabetismo emotivo. E non vi è apprendimento significativo che non passi dal vissuto. E dal riconoscimento di emozioni ‘positive'”.