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Sfide e prospettive della sanità 4.0. Una testimonianza

Il professor Roberto Cauda, infettivologo dell'Università Cattolica del Sacro Cuore e consigliere scientifico dell'Agenzia europea del farmaco, ha tenuto ieri alla Residenza Universitaria Internazionale (RUI) una lectio magistralis dal titolo: “Ripensare il passato per condividerlo nel presente” 

Il valore sociale della sanità. Nell’ultimo secolo si sono ottenuti così tanti successi nella medicina e nella scienza, da poter sostenere che c’è stato un apporto straordinario alla vita nella sua interezza. Con un impatto positivo sui singoli individui. Per fare un esempio: la vita media in Italia nell’Ottocento era di 35 anni per gli uomini e 36 per le donne. All’inizio del Novecento una persona nata nel 1919 aveva un’aspettativa media di vita di circa 42 anni. Grazie al progresso della scienza e della medicina nel 2019 l’aspettativa di vita si è raddoppiata in termine di numero di anni. Il professor Roberto Cauda, infettivologo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e consigliere scientifico dell’Agenzia europea del farmaco, ha tenuto ieri alla Residenza Universitaria Internazionale (RUI) una “lectio magistralis” dal titolo: “Ripensare il passato per condividerlo nel presente”. Afferma il professor Cauda: “Nel Novecento il progresso scientifico non è stato senza conseguenze. Ed ha portato con sé un atteggiamento positivistico della scienza con la tendenza a ignorare e talora contrastare gli aspetti più squisitamente umanistici, compresi quelli spirituali e di fede. Giovanni Paolo II nell’enciclica ‘Fides et ratio’ ha cercato di comprendere ed analizzare le ragioni di fede e scienza. Stabilendo un punto d’incontro comune tra queste due entità, così importanti e vitali per l’uomo moderno”.

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Foto di Drew Hays su Unsplash

Valore sociale della sanità

San Giovanni Paolo II ricorre alla metafora delle due ali. Con la fede e la ragione l’uomo moderno spicca il volo verso la ricerca della verità. Le due realtà, secondo il Papa, non si escludono, ma si completano e si sostengono a vicenda. “Il raggiungimento della verità implica però dei limiti e deve necessariamente considerare come ineluttabile la provvisorietà delle risposte fornite dalla scienza, che proprio per questo sono progressive e suscettibili di modifica nel tempo – avverte il professor Cauda-. La provvisorietà delle conoscenze scientifiche, ed in particolare mediche, non è come sembra un termine negativo. Ma va interpretato positivamente. Poiché è l’humus attraverso il quale si sviluppa e si realizza il progresso umano. Secondo questo principio, ogni teoria viene sostituita nel tempo da una nuova, che rappresenta un ulteriore passo avanti nella conoscenza e dunque nel progresso. Questa continua evoluzione delle scienze, compresa la medicina implica che essa non può fornire certezze assolute, ma solo punti di partenza per nuove ricerche“. Quindi, pur nella drammaticità della pandemia Covid 19, “possiamo considerare come aspetto positivo il dibattito da essa suscitato sul ruolo della scienza nella società civile, non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche nell’opinione pubblica”. La scienza ha affrontato nel Novecento alcuni grandi temi che non solo presentano rilevanza clinica. Ma anche sottendono aspetti etici di grande impatto, per cui mai come in questi ultimi 50 anni il rapporto tra fede e ragione è stato necessario, anche se spesso è stato difficile e contrastato.

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Attività di ricerca (immagine La Nostra Famiglia)

Ricerca

Sostiene lo scienziato: “E’ molto cambiata la medicina grazie agli straordinari passi in avanti compiuti dalla ricerca scientifica. Ma è anche molto cambiato il rapporto medico paziente che da un approccio paternalistico/compassionevole è diventato talora conflittuale. Esprimendosi in forma di cause intentate nei confronti dei medici e di controllo dei pazienti sui medici attraverso la consultazione del Dr. Google, che da alcuni viene percepito come un indiretto indice del grado di preparazione dei medici e della bontà delle prescrizioni attuate. Anche se questo fenomeno riguarda una percentuale non maggioritaria di persone, tuttavia indica un mutato sentire dei pazienti verso la classe medica”. Aggiunge il professor Cauda: “L’attuale situazione vede la popolazione che in generale ha grande fiducia nella medicina, ma paradossalmente, specie in alcune frange, meno in chi la esercita. L’effetto più evidente di questa schizofrenia è la crescita a dismisura del contenzioso medico-legale legato a, il più delle volte, inesistenti errori medici. Del resto, il termine usato dai mass media per presentare queste situazioni e veicolarle all’opinione pubblica è quello di malasanità. Se lo confrontiamo con il termine del mondo anglosassone ‘malpractice’ notiamo un’evidente differenza. Con il termine malasanità, tutta la sanità è sotto accusa. Mentre il termine ‘malpractice’ si riferisce ad un singolo atto, errato, senza coinvolgere l’intero panorama sanitario”.

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Il professor Roberto Cauda con don Aldo Buonaiuto, sacerdote di frontiera dalla Comunità Giovanni XXIII

 Il segno della pandemia

Evidenzia il professor Cauda: “Nei giorni più bui della pandemia Covid 19, quando sembrava di essere tornati indietro agli anni (per non dire secoli) nei quali non esisteva alcun rimedio al dilagare del male e dei morti, c’è stato un viraggio nel sentire dell’opinione pubblica e dei media. Che hanno nuovamente apprezzato l’operato dei sanitari, definendoli eroi. Confesso che questo riconoscimento mi è sembrato da subito eccessivo ed inadeguato, i medici gli infermieri e tutto il personale sanitario in quel drammatico momento avevano solo compiuto il loro dovere. Senza nulla chiedere e senza nulla aspettarsi. Come spesso accade, passato il pericolo, tutto è tornato come prima con gli stessi irrisolti problemi. E con il riaffiorare di antiche criticità e contrapposizioni”. Rivolgendosi ai giovani lo scienziato puntualizza che “non bisogna guardare solo agli aspetti negativi (che senz’altro esistono) ed alle difficoltà dell’esercizio della professione. Ma bisogna altresì riconoscere che fare oggi il medico anzi essere oggi medico, rappresenta ancora uno straordinario connubio di scienza, intuizione, dedizione”. Per cui parafrasando Gabriel Marquez che lo riferiva al giornalismo, è “la più bella professione del mondo”. Quindi “non bisogna guardare al passato, ma in senso positivo al futuro”. Tutto questo “inizia con una diversa formazione universitaria che sia al passo con i tempi. E sappia intercettare quelle che sono le esigenze della società e di conseguenza modulare l’acquisizione delle nozioni mediche in base a queste. Bisogna coniugare una formazione di alto livello tecnico con la capacità di comunicazione”, precisa il professor Cauda.

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Foto di Daniel Schludi su Unsplash

Sanità come missione

Prosegue lo scienziato: “I sanitari sono anch’essi uomini e donne che vivono nella nostra società. Con il loro vissuto ed il portato dei loro problemi e delle loro aspettative e per questo essi stessi sono vulnerabili – sottolinea il professor Cauda-. Nel corso della mia vita professionale ho assistito alle difficoltà personali/psicologiche degli operatori sanitari in due occasioni, HIV/AIDS e Covid 19. Il fenomeno è ben noto, si chiama burn-out e rappresenta le molte facce di questo disagio. Una in particolare riguarda l’atteggiamento di auto protezione dei sanitari nell’evitare di stare vicino ai morenti. Così facendo si viene però meno al tradizionale approccio dei sanitari al malato. Appannaggio sia di una cultura religiosa che laica e che si potrebbe in estrema sintesi indicare utilizzando le parole di papa Francesco. ‘Anche quando non è possibile guarire, sempre è possibile curare, sempre è possibile consolare’. La comunicazione medico-paziente è assolutamente essenziale e prioritaria. Essa non si insegna nelle aule universitarie. Ma si apprende quotidianamente attraverso il contatto con i pazienti. A cui bisogna avvicinarsi con profondo senso di rispetto e di condivisione della loro condizione oltreché dagli insegnamenti di medici più esperti.  Il momento più critico riguarda la comunicazione di una malattia grave che spesso ha un esito infausto, come ad esempio, un tumore. Fino ad a circa 40 anni fa -ed io sono stato testimone di ciò-, l’atteggiamento verso questi pazienti era quello di tenere loro nascosta la verità. Informando solo i parenti. L’intendimento era sicuramente buono. E si ispirava ad un concetto di ‘pietas’ che mirava a proteggere il paziente. In anni più recenti, sulla scorta di quanto era invece attuato nel mondo anglosassone, cioè, di informare di tutto il paziente, si è accettato questo cambio di passo nella comunicazione. In questo modo si riconosce al paziente il diritto alla verità sulla sua condizione. Così da prepararsi adeguatamente all’evento morte per poter sistemare eventuali lasciti ereditari. E, se credente, fruire dei conforti religiosi”.

 

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