Dal 1950 il 7 aprile di ogni anno viene celebrata in tutto il mondo la Giornata della Salute. Per l’occasione Interris.it ha intervistato l’infettivologo Roberto Cauda, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore e consigliere scientifico dell’Agenzia europea del farmaco. “Sarebbe un forte e allarmante regresso se dopo decenni di approccio universalistico si tornasse indietro- afferma lo scienziato-. Ciò non significa che non possano coesistere servizi nazionali e altri di tipo assicurativo. La logica complessiva, però, deve restare l’impostazione universalistica. L’obiettivo non può che restare quello di assicurare a tutti le cure migliori a disposizione. Va garantita la continuità del Ssn come l’abbiamo conosciuta e praticata da decenni. In sintesi occorre evitare sprechi e abusi. Va posto il paziente al centro del sistema e la scienza non deve mai essere disgiunta dall’umanità. E’ un approccio scientifico, culturale e sociale che non può cambiare”
Professor Roberto Cauda, qual è il significato della Giornata mondiale della Salute?
“Richiamare per un giorno l’attenzione sul valore della sanità costituisce un’opportunità che merita di essere colta e valorizzata adeguatamente. Bisogna mantenere alta la guardia affinché non ci siano distrazioni riguardo ad un argomento così importante come la salute. In questi ultimi quattro anni abbiamo toccato con mano quanto sia importante la sanità in termini di prevenzione e di controllo delle malattie. E’ questa la principale lezione della pandemia di Covid 19. La scienza rappresenta sempre un caposaldo al quale destinare risorse e sollecitudine”.
Come è cambiata la sanità nel tempo?
“Dopo quasi 50 anni di professione medica ho vissuto tutta una serie di mutamenti. Il più rilevante è stato il passaggio da una medicina non molto tecnologica ad una ad elevata tecnologia. Ciò ha sicuramente comportato un miglioramento da molteplici punti di vista perché in questo modo possiamo curare malattie che fino a qualche anno fa non eravamo in grado di debellare. Al tempo stesso, però, non mai trascurata l’esigenza di umanizzare la medicina. Bisogna che alla crescita della tecnologia sanitaria segua e faccia sempre da contraltare un rapporto con i malati improntato al massimo delle condivisione e dell’informazione per non lasciare alcun vuoto nella relazione fra medico e paziente”
Quali è stata l’evoluzione dell’attività clinica?
“Il mondo è molto cambiato rispetto agli anni 70, quando ho iniziato a svolgere la professione medica. Sicuramente questo cambiamento è avvenuto in meglio. Proprio in questi giorni c’è stato un appello da parte di autorevoli ricercatori e scienziati a difesa della medicina pubblica. E’ utile richiamare il concetto della salute come bene comune. E’ da questa fondamentale caratteristica che discende l’universalità della cure che non possono essere privilegio e appannaggio di pochi ma devono essere erogate a tutti allo stesso modo. Ciò comporta una serie di problematiche a un doppio livello. Quello di chi eroga i servizi per la salute e in particolare gli operatori sanitari. E il livello di chi questi i servizi li decide e finanzia. Mi riferisco agli stakeholder, cioè a coloro che allocano le risorse”.
Può farci un esempio?
“Non entro nel campo delle scelte politiche di sanità pubblica di questi ultimi anni. Ma il personale sanitario, in qualunque contesto e mansione operi, deve improntare la propria condotta in un’ottica di approccio universalistico. Al tempo stesso va evitato qualunque tipo di spreco. Serve certamente una formazione sanitaria adeguata dal punto di vista tecnologico, però servono la capacità e la sensibilità di parlare ai pazienti. C’è poi tutto il tema della medicina difensivistica: una questione maturata negli ultimi ultimi decenni e che vale diversi miliardi di euro ogni anno. Infatti un notevole risparmio in questo ambito si può ottenere attraverso una ripresa di fiducia dei pazienti nei confronti dei medici. Un risultato simile si guadagna giorno dopo giorno”.
Scienza e umanità?
“Sì. Io nutro una grande fiducia nei confronti delle nuove generazioni. Sono i giovani che possono portare a una svolta della situazione e a un miglioramento generale. Sono operatori sanitari molto più preparati sotto il profilo tecnologico di quanto non fossimo noi. Riescono a vivere meglio quella che è la realtà del mondo moderno, intercettando i bisogni delle persone e della società nel suo insieme”.