Quando una settimana fa un attacco con droni ha ucciso una persona nel centro di Tel Aviv, in Israele, e i ribelli yemeniti Houthi lo hanno rivendicato, si è nuovamente temuta l’escalation nel Vicino Oriente. Di nuovo Israele si è sentito vulnerabile, perché per la prima volta la milizia sciita yemenita l’ha colpito in profondità. La situazione finora è rimasta una corda tesa che non si è spezzata, anche se nessuno sa quanto ancora le sue fibre reggeranno. Per l’autodefinitosi “asse della Resistenza”, la coalizione a guida iraniana formata dalla Repubblica islamica insieme a una galassia di attori statuali e non, come Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza e Houthi in Yemen, più che un conflitto aperto e diretto con Israele sembra essere preferibile mantenere questa tensione costante nel tempo. Il rischio però che si arrivi al punto di rottura anche per le differenti dinamiche interne delle forze in campo. Gli Houthi, per esempio, che tengono sotto scacco una delle principali rotte commerciali mondiali, quella che passa per il mar Rosso, aderiscono alla causa palestinese in cerca di piena legittimazione nel contesto mediorientale. “Potrebbe essersi trattato di un fuoco di paglia o di un attacco pericoloso che porterà a una situazione dai contorni ben più precisi”, spiega a Interris.it l’analista Giuseppe Dentice, responsabile del Desk Medio Oriente e Nord Africa del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.), “la svolta è forse ancora allo stato potenziale”.
L’agenda Houthi
L’azione diretta da parte degli Houthi dentro Israele, che rischiava di allargare un terzo fronte già esistente, rientra nella strategia dei miliziani yemeniti di prendere parte alla guerra tra Israele e Hamas “per accreditarsi come forza nella regione, obiettivo che li porta a stringere rapporti con le forze sciite irachene che guardano con favore a Teheran”, illustra l’esperto, “e i Paesi arabi sono preoccupati all’evoluzione del contesto yemenita, in cui sono coinvolti anche direttamente, per gli effetti che potrebbe avere sulle loro ambizioni politiche”. Questo si lega ai possibili sviluppi sul teatro libanese.
Fronte nord
Come può evolvere la situazione? Una guerra aperta “tutti-contro-Israele” o sono possibili altri scenari? A queste domande, Dentice risponde: “La prima comporterebbe un impegno non indifferente, mentre se queste forze proseguiranno il conflitto con azioni su una scala più limitata potrebbero mantenere Israele sotto costante minaccia”. Ma le situazioni non sono di facile definizione e gli sviluppi sono imprevedibili. “Il confine israeliano-libanese, la linea di demarcazione detta Blue Line, è già diventata un’area di conflitto dall’inizio di quest’anno e se ne vedono gli effetti perché la zona è spopolata, lo documentano anche report delle Nazioni unite”, prosegue lo studioso del Ce.S.I., “per Hezbollah continuare a usare la minaccia contro Israele permette di massimizzare gli effetti più di un conflitto sul campo”.
Strategia assente
Dopo il 7 ottobre 2023 Israele si è riscoperto vulnerabile, consapevole di aver perso la sua immagine di Paese inespugnabile che faceva sentire i suoi cittadini finalmente al sicuro, dopo secoli di diaspora. Tornare al prima sembra un orizzonte molto lontano. “Reputo difficile che allo stato attuale possa ristabilire la sua capacità di deterrenza”, osserva Dentice, “ha certamente risposto con forza, ma nessuno lo vuole sovrastimare perché è noto che senza il supporto degli Usa avrebbe rischiato di subire questa guerra”. Ulteriore elemento di incertezza è il fatto che non sembra esserci un disegno per il dopo. “I contesti aperti sono tanti anche se si chiudesse la questione Gaza, non sarebbe tutto finito. Netanyahu non sembra avere una strategia e questo pesa sul destino di Israele”, spiega l’analista. Neppure l’elezione di Masoud Pezeshkian alla presidenza dell’Iran pare aprire nuove prospettive, aggiunge: “Per com’è impostato lo stato iraniano, difficilmente potrebbe cambiare qualcosa verso Israele”.
Blocco del Mar Rosso
Se sulla terraferma e nei cieli regna l’instabilità, critica è pure la situazione del tratto di mare che collega l’oceano Indiano e il Mediterraneo, per via degli attacchi Houthi alle navi commerciali che vi transitano e in generale per il clima di insicurezza dovuto al conflitto. “Gran parte del commercio mondiale è stato reindirizzato verso il Capo di Buona Speranza, per circumnavigare l’Africa, provocando perdite cospicue per i Paesi affacciati sul mar Rosso, come l’Egitto”, spiega Dentice. L’analista elenca alcuni numeri per rendere l’idea della centralità di questo collegamento e la delicatezza dei possibili effetti di questo “blocco. “A pieno regime, da Bab el-Mandeb verso Suez passa il 12-15% del traffico commerciale mondiale, anche energetico, dei Paesi europei e dell’Asia mediorientale. Oggi i passaggi nel mar Rosso sono calati dell’80%, mentre molti porti africani hanno guadagnato il 60% dei traffici, e sono tanti i Paesi che hanno molto da perdere in questa situazione. Non sono quelli costieri, se pensiamo che anche il progetto Imec, il corridoio dall’India all’Europa, è bloccato per via della situazione tra Israele e Hamas”.