Quella rozzezza culturale che ancora alimenta il razzismo

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Una giovane madre italiana, sposata con uno straniero di colore, madre di due bimbi nati dal loro matrimonio ed evidentemente con le caratteristiche preminenti del padre, ci scrive in quanto la figlia, recatasi il primo giorno in una nuova scuola alla classe terza elementare, si è sentita dileggiare dai compagni di classe per il colore della sua pelle. E ci chiede in cosa ha sbagliato il mondo se ancora oggi si pongono problemi legati al colore della pelle dopo che sono passati numerosi anni dai periodi bui della distinzione di razze, oramai abolite in tutto il mondo: se bambini innocenti riescono a vedere la differenza di pelle e non vedono le differenze nel colore dei capelli o degli occhi, vuol dire che la cultura è ancora arretrata poiché in quei bambini qualcosa è stato instillato nell’ambiente in cui vivono.

Abbiamo scelto questa settimana la sua lettera, gentile signora, poiché pone un problema tremendamente attuale ed un interrogativo che definirei retorico poiché la risposta è inevitabilmente scontata.

Sono i giorni della pubblicazione e del fermento dell’enciclica pontificia che per la prima volta unifica nella fratellanza tutta l’umanità, nel segno del Santo che ha predicato la povertà, mai così attuale come oggi che la ricchezza è accaparrata da pochi, dopo anni in cui se ne è almeno tentata la distribuzione attraverso l’accesso delle classi meno agiate a molti degli strumenti di misura del benessere: vestiti, villeggiature, svaghi, prodotti di cultura, mondanità, comodità domestiche. Ma quella fioritura del tardo dopoguerra si è pian piano arenata sulla spiaggia del potere ai gruppi di controllo dei mercati: la crescita di chi produceva mezzi di ripresa economica ne ha rafforzato la pretesa oligarchica invertendo nuovamente la direzione e escludendo quella classe media che aveva beneficiato degli allori dalle nuove realtà redditizie; il divario si è nuovamente accresciuto ed invece di sconfiggere la povertà abbiamo riprodotto i poveri.

Ma l’argomento è più spinoso di quello della inversione di tendenza nella distribuzione della ricchezza e riguarda l’odio sociale che oggi taluni propongono nei confronti di chiunque sia diverso dal branco, che si uniforma ed identifica in pochi tratti per rafforzare la sua supremazia: riguarda differenze impalpabili ad un osservatore evoluto, riguarda il colore della pelle che ancora oggi, a distanza di oltre un secolo dalla fine della schiavitù – e non basteranno intere librerie a spiegarne la sua ragione in un epoca di rinascita della cultura – in cui bambini additano un loro compagno.

Ha ragione, cara signora, nel pensare che i bambini non c’entrano in questa infelice stortura poiché non possono coglierne il significato per un argomento a loro indifferente: il bambino non vede il colore della pelle come non vede il colore dei capelli o degli occhi, la statura o il peso, o altre differenze somatiche; il bambino ha ascoltato discorsi di adulti, in casa piuttosto che in televisione, al cinema o per strada, segno di una cultura razzista ed egemonica ancora diffusa.

Non ho usato a caso questo termine: oggi c’è ancora chi si propone alla guida degli altri supponendo una propria superiorità, una propria capacità di dirigere anche gli altri che magari non partecipano alla contesa, una titolarità intellettuale idonea e sufficiente a governare e ad imporre il proprio pensiero, che diventa a quel punto unico ed obbligato. Ma la storia ha insegnato che così non è e che il meglio deriva dal confronto, dalla dialettica, dall’alternanza, dall’ascolto della posizione e della proposta di tutti affinché la soluzione sia mediata tra tutte le esigenze.

E questa pretesa – che non si può più imporre culturalmente non solo per l’emancipazione delle classi inferiori  ma principalmente per la diffusione della partecipazione diretta alle diatribe intellettuali attraverso l’eliminazione della intermediazione di comodo alla diffusione del sapere – è dovuta ricorrere agli stilemi della violenza ed alle immagini della forza bruta: non v’è film, sceneggiato, cartone animato, spot pubblicitario o copertina di libro o di rivista che non inneggi alla vittoria del più forte contro il nemico. Ed il nemico è sempre il diverso, perché isolato, perché solo, perché più facilmente sopraffatto dal gruppo che finisce per circondarlo e sottometterlo.

È certamente una sconfitta della evoluzione della cultura ma la grande, immensa consolazione è che questa visione riguarda una ridottissima parte di infelici costretti a ricorrere a tali metodi per non ammettere la sconfitta culturale da parte delle nuove generazioni, insensibili al razzismo.

Signora cara, tranquillizzi i suoi figlioli che queste aggressioni culturali, e purtroppo talvolta anche fisiche, hanno vita breve poiché sono il grido di coda di una forza becera oramai definitivamente sconfitta.

Roberto de Tilla: