“Ho conosciuto Don Oreste Benzi da bambina perché era il mio parroco: abitavo proprio alla Grotta Rossa, quindi ho avuto la fortuna sia di conoscerlo in veste di parroco sia in veste di fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, della quale sono poi diventata membro e per la quale tuttora opero come educatrice”. Il ricordo a Interris.it di Emanuela Frisoni, animatrice dell’Ambito Arte della Papa Giovanni XXIII (Apg23) che ha conosciuto don Oreste Benzi sin da piccolissima, alla vigilia del 16 anniversario dalla morte del prete dalla tonaca lisa.
Il ricordo di don Benzi di Emanuela Frisoni
“Mi rendo conto di aver avuto la grande fortuna di aver vissuto l’infanzia, l’adolescenza e la gioventù in quel particolare periodo storico, tra gli anni ’70 e ’80, in quello specifico contesto parrocchiale e comunitario in cui si sperimentava una sorta di laboratorio sociale aperto a 360 gradi. In quegli anni infatti furono diverse le famiglie che si aprirono all’esperienza dell’affidamento soprattutto di minori; tra queste, famiglie di vicini di casa e anche la mia. Ancora non c’era una netta distinzione tra parrocchiani e membri effettivi della Comunità Papa Giovanni. All’epoca la nascita della Apg23 era ‘mescolata’ alla vita delle parrocchia tenuta da don Oreste e da don Elio Piccari: tante idee (come l’accoglienza) erano inizialmente portate avanti alla stessa maniera, ma vissute in modo più radicale dai membri comunitari in particolare dalle realtà delle case-famiglia e, più ‘in piccolo’ da alcune famiglie di parrocchiani che accoglievano le richieste del don anche solo per qualche giorno o per periodi più lunghi”.
“La seconda casa famiglia aperta dalla Papa Giovanni era nata proprio in fondo alla via dove abitavo con la mia famiglia. Ciò significava in concreto una fortissima interazione tra la casa famiglia e la parrocchia. Una volta al mese, ad esempio, la mia famiglia assieme ad altre della parrocchia era solita cenare assieme a tutta la casa-famiglia. Ricordo che andarci per noi ragazzini era una festa. Restavo colpita dall’energia positiva che si respirava. All’epoca tra i vari accolti in casa famiglia c’erano anche dei bimbi africani senza braccia e gambe venuti in Italia per poter fare le protesi agli arti. Nella bellezza del nostro stare insieme, giocare, fare catechismo con loro, neanche ci accorgevamo più ad un certo punto della loro invalidità. Stare seduti fianco a fianco, la domenica a messa era una cosa naturale per noi bambini”.
“Una volta all’anno, in Luglio, si faceva la ‘Festa di mezza estate’: andavamo a prendere negli istituti persone diversamente abili e con loro facevamo una mega festa in parrocchia con i fratelli di comunità e i parrocchiani: 500 persone sotto un grosso tendone tutti insieme, senza ‘barriere’. Al tempo era tutto così normale che da ragazzina pensavo che quello che facevamo alla Grotta Rossa, fosse lo stile di ogni parrocchia. Insomma, non mi ero accorta che stavo vivendo una dimensione di parrocchia eccezionale. Ho capito solo anni dopo che quello che lì per lì sembrava così naturale, era in realtà rivoluzionario: era l’inizio della condivisione diretta con gli ultimi. In quello che poi diventerà uno degli slogan della Papa Giovanni: ‘finché gli ultimi non saranno i primi'”.
“Fu la grande intuizione di don Benzi: aprire le porte degli istituti, accogliere disabili o carcerati in famiglia, dare un papà e una mamma a quanti non ce l’hanno, liberare le schiave della tratta sessuale, far uscire i ragazzi dalla tossicodipendenza. Tutto grazie a ‘un simpatico incontro con Gesù'”.
“L’incontro con don Oreste, il mio primo catechista, riferimento poi nei vari gruppi giovani parrocchiali prima, e comunitari poi, ha fortemente condizionato tante mie scelte, professionali, di coppia e di vita. Il don, ci ha sempre esortati ad essere pieni di iniziative, vulcani di idee per il bene verso il prossimo, e questo invito l’ho sempre cercato di fare mio. Anche nell’esprimere la mia creatività ho sempre tentato di tradurre i valori, i principi, i punti fermi della Papa Giovanni nel portare avanti un teatro inclusivo e portavoce di valori fondamentali per la vita della Comunità, per ‘dare voce a chi non ha voce’.
“Tutto questo grazie al vulcanico Don! Un prete che, al contempo, sapeva essere un uomo estremamente semplice: era il sacerdote che mi ha fatto catechismo, mi ha visto crescere, confermare nel mio cammino vocazionale e matrimoniale. Per me, è stato un papà acquisito, presente nel momento del bisogno, ma che allo stesso tempo non ti fa dormire sonni tranquilli. Lui c’era sempre per tutti, ma anche per ognuno. Aveva questa capacità di essere per il grande gruppo, e, al contempo, intimo ed esclusivo davanti a personali bisogni. Lo vedevi magari alla televisione e la sera dopo era a casa tua a dire il rosario per tua nonna che era morta. La sua fede testimoniata con la vita, la sua capacità di costruire Bene, sono stati davvero un privilegio unico di cui mi è stato fatto dono e che mi sento chiamata, seppur con tutti i miei limiti, di portare al mondo”.