“Non mi chiamo rifugiato” è il nome del nuovo programma di Radio Vaticana, realizzato in collaborazione con il Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati, un’organizzazione internazionale che quest’anno celebra i primi 40 anni di attività.
Il programma parte oggi, sabato 26 settembre, alle 17.05. Si potrà ascoltare sulle frequenze 105.00 Fm e 103.8Fm, digitalradio.it, canale tv 733. Per chi, invece, non riuscirà ad ascoltarlo in diretta potrà recuperare la puntata tramite il podcast che verrà pubblicato sul sito ufficiale di Vatican news.
Sei appuntamenti settimanali che andranno avanti fino al prossimo 31 ottobre e che porteranno l’ascoltatore a fare un viaggio attraverso la vita di chi forse ce l’ha fatta per miracolo.
Conoscere per comprendere
Il contenuto dell’iniziativa risponde anche al dettato di Papa Francesco, che proprio nel Messaggio per la 106° Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato che ricorre domani, scrive: “La conoscenza è un passo necessario verso la comprensione dell’altro. Quando si parla di migranti e di sfollati troppo spesso ci si ferma ai numeri. Ma non si tratta di numeri quanto di persone! Se le incontriamo arriveremo a conoscerle. E conoscendo le loro storie riusciremo a comprendere”.
Illuminare le periferie
Anche in questo caso il giornalismo ha acceso un faro sulle situazioni più drammatiche, sulle storie che troppo spesso sono relegate alle periferie della società, storie di uomini e donne etichettati e dimenticati perché immigrati. É qui che arriva la voce del giornalista che racconta e che fa raccontare, è qui che arriva il microfono per dare voce a chi non sempre riesce ad esprimersi.
Stefano Leszczynski, giornalista dalla grande sensibilità ed umanità che tramite i microfoni di Radio Vaticana ha ideato e scritto il programma, ha raccontato ad Interris.it il significato di questa nuova avventura.
Storie dal mondo raccontate dai protagonisti
“La novità del programma consiste nel fatto che sono i rifugiati a parlare di sé stessi mentre fino ad oggi abbiamo sempre cercato di raccontare noi giornalisti la loro storia. Ora, invece, per la prima volta sono loro a parlare del proprio vissuto, raccontandosi come persone”.
Le raccomandazioni del Papa
“Questo ovviamente risponde anche ad una delle raccomandazioni di Papa Francesco contenute nell’ultimo messaggio della giornata del migrante e del rifugiato. Quello di ampliare la conoscenza e stabilire un contatto diretto, di dare un personalità e un volto a queste persone che non sono soltanto dei numeri. Sono delle persone in carne ed ossa con una propria storia fatta di affetti”.
Pezzi di vita
“Non manca il vissuto tragico dovuto a questa migrazione forzata che loro hanno dovuto subire ed è proprio qui l’altra grande novità. Noi oggi parliamo di migranti che sono stati costretti a lasciare il proprio paese, è questo il grande punto che li differenzia dai cosiddetti migranti economici. Anche questi subiscono altre tipologie di costrizioni legate ovviamente alla miseria, alle difficoltà della vita e al deterioramento dell’ambiente”.
Verso un futuro migliore
“Sono uomini e donne che scappano da violenze e situazioni gravi dove non sono rispettati i diritti umani. Hanno bisogno di un rifugio. Gli eventi che scatenano le ragioni della fuga sono ovviamente imprevedibili fino al momento in cui si verificano perché la vita di queste persone, come loro stessi raccontano, si svolgeva in modo normale prima di essere stravolta. Quel qualcosa, quello stravolgimento della vita, dovuto a motivi politici o bellici, nel Paese che li costringe a dover lasciare improvvisamente tutto quello che hanno“.
Il viaggio della speranza
“Intraprendono questo percorso migratorio verso la salvezza. Non è un percorso ordinario o prevedibile, è un percorso caotico, sono persone in fuga e in quanto tali sono soggetti a tutte le variabili che incontrano lungo il percorso della fuga. Attraversano vari paesi e tra questi anche molte zone in conflitto, come ad esempio la Libia. Da qui nasce poi la necessità di fuggire da questi terzi paesi, molti infatti dalla Libia fuggono, non partono. Nessuno ha intenzione di arrivare in Libia e mettersi in mano degli scafisti”.
Un modo nuovo di raccontare
“Il titolo “Non mi chiamo rifugiato” sta proprio a significare che queste persone non sono elementi di una categoria generica, non appartengono a dei numeri. Sono persone in carne ed ossa, con un nome, un cognome e una storia e questo cognome e nome è proprio quello che caratterizza l’inizio di ogni puntata. Ogni rifugiato intervistato si presenta dicendo da quale paese proviene e raccontando la propria storia. É un modo totalmente nuovo di raccontare. Inoltre, proprio per addentrarsi meglio nel clima della storia, sono state inserite le musiche relative al paese di origine o dei paesi attraverso i quali viaggiano i vari protagonisti delle puntate. Non mancano delle schede di contestualizzazione che raccontano di volta quello che era il contesto economico, sociale e politico nei vari momenti fino al loro arrivo in Italia”.
L’arrivo in Italia del rifugiato
“Questo poi è il momento più complicato perché una volta che queste persone riescono a chiedere asilo il problema più grande è quello del percorso di integrazione e di accoglienza. Non sanno a chi rivolgersi, non sanno come funziona la burocrazia, non sanno come poter trovare un lavoro, spesso vengono sfruttati. Lì per fortuna intervengono le associazioni, come il centro Astalli, che si occupano di richiedenti asilo e di rifugiati che li indirizzano alle Procure, alle Prefetture, alle Questure, ai centri di accoglienza e ai centri di formazione. Permettono loro di avere un percorso ordinato con un ruolo nella società che li ospita. Tutti quanti alla fine riescono sempre ad avere un inserimento lavorativo con grandi sacrifici. Molti diventano mediatori culturali, aiutano al processo di integrazione degli altri, dei migranti e dei rifugiati e collaborano quasi sempre con le associazioni che li hanno aiutati”.
Dare voce agli ultimi
“L’idea è nata con il centro Astalli perché durante un incontro con Padre Camillo Ripamonti, presidente della fondazione del centro Astalliì. Parlando della questione dei rifugiati è venuta fuori quest’attenzione che i rifugiati generalmente parlavano per interposta persona. Come fare per dare voce ai rifugiati? L’idea è quella di fare una trasmissione in cui loro potessero narrarsi in maniera empatica, come degli amici che si aprono e ti raccontano quello che è stata la loro storia. Si superano le polemiche sugli stereotipi che invece caratterizzano oggi il dibattito sul mondo dei migranti e dei rifugiati, frutto di una propaganda fortemente malevola che c’è in Italia e in Europa soprattutto riguardo il perché queste persone fuggono. Ascoltando i loro racconti si capisce bene che chiunque nei loro panni, se avesse avuto il loro coraggio avrebbe fatto la stessa cosa“.