La situazione umanitaria nella regione orientale della Repubblica Democratica del Congo – dove lo scorso febbraio è stato ucciso l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci che era con lui e l’autista del veicolo sul quale viaggiavano – resta ancora delicata e complessa, ha fatto sapere in una recente nota l’Agenzia Onu per i Rifugiati (Unhcr), a causa delle violenze commesse dai gruppi armati sui civili e per i conseguenti spostamenti in massa da parte di gruppi di sfollati interni, oltre che per le condizioni di vita che si fanno sempre più problematiche anche a causa della scarsità di cibo.
Luca Mainoldi, responsabile del settore Africa per l’Agenzia Fides, sentito da In Terris, illustra come le cause di questi conflitti nel Paese si ritrovano nello “sfruttamento delle risorse minerarie, quali il coltan (una terra rara usata per realizzare microprocessori, ndr) e l’oro, così come il legno”, ma anche in questioni politiche ed etniche, dovute a uno Stato che fatica a garantire la sicurezza, alle dinamiche transfrontaliere legate ai confini con Uganda e Ruanda – “popolazioni divise dalla frontiera durante il periodo del Colonialismo” spiega Mainoldi – e ai processi di integrazione.
Sfollati interni
Gli attacchi da parte dei gruppi armati nelle provincie orientali del Nord Kivu e dell’Ituri mietono vittime tra i civili e costringono molte persone a lasciare le proprie case. Nel corso di quest’anno, sono stati registrati dall’Unhcr e dai suoi partner 1.200 morti, oltre un migliaio di violenze sessuali e circa 25mila violazioni dei diritti umani. Oltre un milione di congolesi è dovuto fuggire. Una situazione, quella degli Idp (Internally displaced persons), che per la Repubblica Democratica del Congo significa il triste primato del più alto numero di sfollati interni dell’intero continente africano, 5,5 milioni di persone – scrive l’Agenzia Onu per i rifugiati nel suo Global Focus. Le violazioni dei diritti umani, riporta sempre Unhcr, riguardano anche quelle persone che, dopo esser state sfollate, rientrano nelle loro aree di provenienza a causa delle difficili condizioni di vita venutesi a creare nelle zone ospitanti, trovandosi così esposti a nuovi abusi. Infatti proprio tra loro sarebbe stato registrato il 65% delle violazioni.
Recenti episodi
La grave situazione in quelle due province nell’est del Paese ha portato, lo scorso maggio, il presidente della Repubblica Democratica del Congo Félix Tshisekedi a dichiarare lo stato di assedio, per cercare di contrastare le attività – estorsioni, saccheggio, violenze – delle milizie nell’area. Nella sua recente nota, l’Unhcr riporta due attacchi che sarebbero avvenuti a inizio settembre nella provincia di Ituri. Il primo, lo scorso 3 settembre, quando un gruppo di uomini, che sarebbero stati identificati come appartenenti all’Allied Democratic Forces, avrebbe ucciso 15 persone, rapito due donne e incendiato diverse case in un villaggio nel territorio di Irumu. Il secondo episodio invece risalirebbe al 6 settembre, nel territorio di Djugu, quando un altro gruppo armato avrebbe abusato di dieci donne. Le vittime hanno poi sono state soccorse dell’Unchr e dai suoi partner e portate nell’ospedale più vicino, fa sapere nella sua nota l’Agenzia Onu per i rifugiati.
Storia
La storia recente del Paese, vasto territorio nato come possedimento personale del re del Belgio alla fine del XIX secolo e diventato colonia nei primi anni del Novecento, negli ultimi due decenni è stata segnata da conflitti e scontri nella sua porzione orientale. Mainoldi ripercorre alcune tappe della storia dell’attuale Repubblica Democratica del Congo a partire dall’indipendenza, conseguita il 30 giugno 1960, nel periodo della decolonizzazione dell’Africa, con Patrice Lumumba a ricoprire per primo il ruolo di primo ministro, anche se solo per pochi mesi: “Nei primi giorni dell’indipendenza scoppiò una guerra civile nel Katanga, nel sud del Paese, alimentata anche dagli ex colonizzatori che vi mantenevano interessi minerari. Successivamente, pochi anni dopo, ci fu l’ascesa al potere del maresciallo Mobutu, appoggiato dal Belgio e dagli Stati Uniti. Nella lunga vita del suo regime cambiò nome al Paese, ribattezzandolo Zaire, rimettendo al centro l’identità africana e diffondendo un sentimento nazionale“. Mobutu rimase al potere fino alla metà degli anni Novanta, quando venne sconfitto nella cosiddetta prima guerra del Congo, tra il 1996 e il 1997. Lo spiega Mainoldi: “Dopo il genocidio del Ruanda del 1994, molti appartenenti all’etnia Hutu, fuggiti perché accusati dell’eccidio dei membri di etnia Tutsi, ripararono nei Paesi confinanti, alcuni nella parte orientale del Congo. Il regime ruandese retto allora dai Tutsi, insieme all’Uganda e all’Angola, appoggiò le forze congolesi ribelli a Mobutu che avevano come leader Laurent Kabila, divenuto poi il nuovo capo di Stato”. Le tensioni non finirono e appena un anno dopo, nel 1998, scoppiò la seconda guerra africana, “chiamata la guerra mondiale africana” aggiunge Mainoldi, perché coinvolse diverse nazioni del continente – tra cui Ruanda, Uganda, Angola e Namibia – e durò fino al 2003.
I gruppi armati
Terminato il conflitto, “nell’est del Paese si sono formati dei gruppi di milizie locali”, oltre a quelli che arrivano dagli Stati vicini, come Uganda e Ruanda, “che praticano una guerra a bassa intensità ora alleandosi e ora scontrandosi per il controllo delle risorse”, illustra Mainoldi. Con l’obiettivo di smobilitare questi gruppi, spiega sempre Mainoldi, l’esercito congolese ha raggiunto con loro una serie di accordi accogliendo dei componenti nei propri reparti. Una delle forze attive nelle provincie orientali congolesi, al confine con l’Uganda, sono le “Allied Democratic Forces, un gruppo di origine ugandese”, spiega Mainoldi, “con una dirigenza composta da non congolesi, truppe reclutate sul territorio, che colpisce soft target e crea instabilità nell’area”.
Le cause dei conflitti
Le radici dei conflitti che scuotono queste zone del Paese affondano in questioni economiche, politiche ed etniche, espone ancora Mainoldi. “Queste province sono territori piccoli ma densamente popolati in cui si lotta per tutte le risorse, come per l’estrazione illegale di minerali e la loro vendita all’estero” spiega. Le dinamiche di confine, legate alle frontiere con Uganda e Ruanda, e “il problema della debolezza dello Stato che non riesce a garantire servizi e sicurezza alla popolazione che fa sì che si inneschino dinamiche di tipo identitario. Ci si rivolge al proprio gruppo di appartenenza”.