La lettera che abbiamo scelto questa settimana riguarda una condizione particolare in cui può trovarsi una famiglia quando un giovane si lascia trascinare nel vortice della droga: parliamo degli arresti domiciliari ad un ragazzo di diciannove anni colto in fragrante nel possesso e nella cessione ad un suo amico di alcune dosi di cannabis. Va subito detto, parlando di droghe cosiddette leggere, che la legge consente il possesso di un quantitativo ridotto per uso personale ma che un quantitativo, anche di modeste quantità eccedente l’uso personale e finalizzato allo spaccio è punito con la reclusione.
Nel caso che ci viene raccontato, le Forze dell’ordine hanno colto il giovane mentre consegnava ad un amico all’incirca 100 grammi di hashish, corrispondenti a circa sei sette dosi, in cambio di danaro; di qui l’arresto in flagranza e la concessione degli arresti domiciliari da parte del GIP su parere favorevole del PM in considerazione della condizione di incensurato del malcapitato. Non sta a noi qui commentare se la legge sia giusta o sbagliata o se sia giusto la liberalizzazione anche della circolazione della droga; a noi interessa l’aspetto umano della vicenda.
Quella famiglia si è trovata all’improvviso in una condizione anche umiliante, trattandosi di persone oneste, dedite al lavoro ed alla casa, e di difficile gestione sia del rapporto con il ragazzo sia coi suoi due fratelli più piccoli, di quindici e nove anni, per i quali l’esempio negativo sarà difficile da smaltire.
Questo lo sfogo del padre che si è trovato all’improvviso a dover rivedere tutta l’impostazione educativa dei suoi figli, colpevolizzandosi sulle proprie capacità genitoriali, pur consapevole dei pericoli disseminati fuori dalle mura domestiche, in cui certo non può chiudere i figli. Ma oggi lo deve fare e ci chiede se sia una punizione per il figlio colpevole o per lui che non ha saputo tenerlo lontano dal crimine, di non aver colto per tempo la strada sbagliata in cui il figlio si era avventurato. E ipotizzando che forse il carcere al figlio che aveva sbagliato avrebbe evitato il coinvolgimento dell’intera famiglia.
No, caro lettore, non siamo d’accordo e lo spirito cristiano che illumina le nostre riflessioni ed orienta il nostro giornale non consente una simile conclusione. In primo luogo, perché la pena che viene inflitta al colpevole di un reato non ha natura né sanzionatoria né riparatoria né punitiva: essa ha solo funzione rieducativa giacché l’unico scopo cui è improntata l’azione dello Stato è quello di evitare che il reato commesso venga reiterato; a questa finalità sono destinate tutte le misure preventive, che la legislazione speciale ha previsto con l’evoluzione giuridica del sistema ed in tale direzione sono orientate le misure penali, graduate in relazione alla gravità dei reati commessi e della capacità rieducativa del condannato.
Si sente spesso invocare maggiore rigore nell’applicazione delle misure detentive ma lo sforzo dovrebbe andare in senso opposto, e cioè nel ridurre al minimo indispensabile la carcerazione, a favore di uno sviluppo dei metodi di recupero, presso le famiglie piuttosto che in istituti appositamente dedicati alle finalità indispensabili al bene comune della riduzione dei reati e della riabilitazione dei colpevoli: chi ha sbagliato non deve pagare, ma ha bisogno di essere aiutato a non sbagliare più, a trovare in sé, mediante le necessarie misure che siano in grado di provocare l’inversione della tendenza a delinquere, la forza e le motivazioni per ritornare a vivere in maniera consentita. Non si capisce cosa dovrebbe pagare, con la pena, chi ha sbagliato: sarà tenuto – e la legge lo prevede – a risarcire i danni che ha arrecato, ma questo è un altro discorso; ma in termini penali il compito dello Stato è quello di rieducare. Ecco perché sono inaccettabili – giuridicamente – la pena di morte, l’ergastolo e le detenzioni a lunghissima scadenza: sono in contrasto con la finalità della pena e lo Stato deve sforzarsi di trovare le risorse adeguate ed impegnare quelle disponibili, prioritariamente, al recupero dei colpevoli affinché non proseguano a sbagliare.
In secondo luogo perché la famiglia, la sua famiglia caro lettore, deve stringersi attorno al figliolo che ha sbagliato, stargli vicino ed aiutarlo a riflettere sugli errori commessi e sulla loro gravità, sul non aver aperto al dialogo familiare che oggi invece può essere opportunamente avviato e ripreso affinché l’errore commesso possa essere di monito per gli altri figli, anch’essi chiamati al loro compito di stare vicini al fratello ed ai genitori, recuperando quell’unione che probabilmente si era persa, almeno nella convinzione del giovane che ha sbagliato.