Un paese che ha subìto duramente l’impatto dell’epidemia di Covid e della conseguente crisi sanitaria, economica e sociale, ma che dopo quelli che sono stati i mesi più duri, si sforza di rialzarsi e dà segnali di ripartenza e di ripresa. Si può riassumere così il ritratto dell’Italia che emerge dal Rapporto annuale 2021. La situazione del Paese presentato dall’Istituto nazionale di statistica (Istat) lo scorso 9 luglio a Roma.
L’impatto della pandemia
La pandemia ha fatto sentire i suoi effetti in diversi settori, andando a insistere su una realtà complessiva che già presentava più di una criticità. Principalmente ne hanno risentito bilancio demografico, istruzione ed economia.
Nel 2020 infatti si è registrato il più alto numero di decessi dal Secondo dopoguerra, oltre 746mila. Si tratta di circa 100mila morti in più rispetto alla media del periodo 2015-2019. Con l’aumentare del rischio della mortalità, di conseguenza, si è ridotta di 1,2 anni l’aspettativa di vita alla nascita su base nazionale. Questo ha interessato maggiormente gli uomini, la cui riduzione è arrivata a 1,4 anni scendendo così sotto gli ottant’anni, rispetto alle donne, per cui è diminuita di un anno. Nel corso del 2021, riporta Istat in riferimento al periodo esaminato, la mortalità si è gradualmente ridotta. Nel confronto con l’anno precedente, si registra una diminuzione del 23,5% a marzo e del 14% ad aprile.
Anche la natalità ha risentito degli effetti della pandemia. Nel suo rapporto Istat illustra come la caduta delle nuove nascite, cominciata nel 2008, non si sarebbe comunque interrotta e avrebbe raggiunto un nuovo minimo con 404.104 nuovi nati, cioè -3,8% sull’anno precedente. Osservando più da vicino l’influenza della pandemia sulla natalità, Istat osserva come i primi segnali in termini di calo dei concepimenti si sono cominciati ad avvertire nel periodo novembre-dicembre 2020 e nei primi due mesi dell’anno successivo. Questo a fronte di un lieve aumento delle nascite registrato a marzo 2021 (+3,7% su marzo 2020). In merito a questi comportamenti, nel documento si ipotizza che i minori concepimenti possano derivare o dalla scelta di un rinvio temporaneo dei progetti di genitorialità – per via dell’emergenza – o da decisioni basate su altri fattori che potrebbero indurre a procrastinare ancora o ad abbandonare del tutto un progetto di famiglia.
Pure istruzione ed economia hanno subito l’impatto del Covid, che anche in questi settori ha insistito su realtà già in difficoltà. Mentre negli ultimi anni la nostra scuola secondaria superiore si avvicinato molto alla media europea, l’Italia è al penultimo posto tra i 27 Stati membri per quanto riguarda la formazione universitaria: la media dei laureati tra i 30 e il 34 anni da noi è del 28%, contro il 40% del resto dell’Ue.
La pandemia ha pesato sulla scuola italiana per via delle chiusure e del ricorso alla didattica a distanza, in una situazione contrassegnata da differenze territoriali. Una stima nel rapporto dà un numero: tra aprile e giugno 2020 l’8% degli iscritti, tra scuola primaria e scuola secondaria, non ha partecipato alle lezioni in video.
Il tema dell’istruzione resta comunque centrale e meritevole della massima attenzione per un’altra serie di caratteristiche. Infatti resta ancora, per usare le parole dell’Istat, “fattore determinante per la riduzione delle disuguaglianze e per far convergere le prospettive individuali di occupazione e di reddito”. Ma le criticità forti, nel panorama del nostro Paese, sono due. In un caso, si tratta di quei giovani che hanno abbandonato gli studi dopo la licenza media. Si tratta di circa il 13,1% dei giovani tra i 18 e i 24 anni, e la buona notizia è che sono diminuiti di sette punti percentuali, ma siamo ancora al di sopra della media europea (10,1%). Nell’altro caso, si parla dei Neet, quei giovani tra i 15 e il 29 anni non occupati né inseriti in un percorso scolastico o formativo. Una condizione che purtroppo tocca 2,1 milioni di persone, il 23,3% di quella fascia d’età.
Occupazione e crescita del Pil hanno conosciuto un calo drastico, nell’anno della pandemia. A gennaio 2021 si registrava una perdita di 915mila posti di lavoro, a partire dai lavoratori a tempo determinato e dagli autonomi finendo poi per coinvolgere anche chi è a tempo indeterminato. Ne sono stati recuperati circa 180mila. Il prodotto interno lordo italiano ha registrato un crollo dell’8,9%, una caduta di un’ampiezza senza precedenti dal Secondo dopoguerra.
La pandemia è stato uno shock anche per il sistema produttivo italiano, in un quadro economico dove la produttività, scrive Istat, “nell’ultimo decennio è ristagnata”. La crisi ha colpito soprattutto le imprese più piccole. Circa la metà di quella con 3-9 addetti sarebbe a Rischio strutturale, mentre un un quarto Fragile. Per quanto riguarda le piccole imprese, tra i 10 e i 49 addetti, un quarto sarebbe a Rischio strutturale e un quarto Fragile. Un elemento incoraggiante è rappresentato dalle imprese Solide, perché, spiega l’Istituto nazionale di statistica, “sono anche quelle con un più alto grado di rilevanza sistemica, ovvero con un impatto più significativo sul tessuto produttivo e, come tali, maggiormente in grado di trasmettere impulsi anche al resto del sistema”.
Al crollo di occupazione e Pil è seguito quello dei consumi, inoltre si avuto un incremento del 9,4% dell’incidenza della povertà assoluta. Si tratta, sempre per usare le parole dell’Istat, “degli individui la cui spesa ricade sotto una specifica soglia”. Al forte aumento dell’incidenza avrebbero fatto seguito però una minore intensità, che sarebbe “la distanza tra la spesa media mensile delle famiglie incluse in questo segmento e la linea di povertà da cui si discostano (al ribasso)”. Ciò sarebbe stato possibile, scrive sempre Istat, “anche grazie alle “misure pubbliche di sostegno”.
Intervista
Degli effetti della pandemia sulla società italiana e dei contenuti del Rapporto annuale 2021, In Terris ha parlato con il sociologo Maurizio Fiasco.
Nel suo documento Istat scrive che “il recupero delle dimensioni del vivere sociale e i segnali confortanti sull’andamento dell’economia debbono spingerci a tracciare mappe verso una prospettiva di ricostruzione e mobilitare le riserve umane e materiali necessarie per procedere su quella via”. Come valuta questo “disegno” del nostro Paese?
Non c’è ricostruzione senza un disegno, la tragedia della pandemia ha reso tutto più evidente e quindi ha tolto la possibilità di nascondere testa sotto la sabbia. L’Istat documenta l’impossibilità di un mero ripristino della situazione preesistente al Covid, che tra l’altro conteneva il ritardo dovuto alla crisi del 2008 in termini di calo demografico e perdita di punti di Pil. Il declino demografico è un’urgenza drammatica, la speranza di vita con il Covid è diminuita e certi aspetti del nostro modello economico, presenti già prima della pandemia, vanno cambiati senza più rinvii.
Il “disegno” del Paese fatto dall’Istat ci dice che nelle crisi strutturali si manifesta un’insospettata capacità di resistenza, a cui viene affiancata la resilienza. Di fronte a una cognizione della crisi così imponente si è costretti a cambiare e questo significa, ad esempio, dare nuovamente rilievo alle economie del territorio e in generale a ciò che davamo scontato, lo stato sociale, tanto da arrivare a tagliarlo.
In cosa si sono manifestate, nel quotidiano, la nostra resistenza e la nostra resilienza?
Quando le comunità locali hanno riattivato un ciclo di solidarietà, di partecipazione e di presa in carico, soprattutto nelle prime drammatiche settimane della pandemia. Così come nella capacità di comprendere le regole da osservare per fronteggiare il Covid. In generale, si è trattato di una situazione che ha prodotto un rilancio dei rapporti tra le generazioni, la rivitalizzazione delle economie familiari e la riscoperta, quando è stato possibile, delle città e della cultura.
Per quanto riguarda gli altri protagonisti della nostra società?
Siamo stati i primi in Europa a isolare il virus, all’ospedale “Lazzaro Spallanzani” di Roma. Questo per evidenziare l’importanza degli investimenti in istruzione e ricerca. Inoltre Istat ci dice che sono state vinte molte resistenze al processo di digitalizzazione, anche da parte delle imprese. Nel 1945 l’idea della ricostruzione ha permesso all’Italia di risollevarsi e raggiungere, in dieci anni, livelli mai raggiunti prima. Dobbiamo tornare a quello spirito.
Sotto il profilo demografico continua il declino della popolazione. Le cause sono un eccesso di mortalità e il calo delle nascite. Che Italia si va prefigurando?
Di solito dopo una tragedia si assiste a una spinta di natalità, come testimoniano stati baby boomers nel secondo dopoguerra. Mentre l’aumento della mortalità è stato drammatico, Istat riporta un impatto netto di 120mila morti in più nel 2020 rispetto al 2019.
Sempre sul tema delle nascite. Nel rapporto si legge che in Italia i due terzi avvengono ancora dentro il matrimonio, mentre si osserva anche che il lieve aumento di nuovi nati a marzo 2021 potrebbe rientrare in un contesto di nascite fuori dal matrimonio e che vede coinvolte madri laureate. Quali sono i cambiamenti in questo ambito?
Si può fare questa considerazione: all’interno della situazione di confinamento abbiamo assistito a una riorganizzazione cognitiva della scala dei valori e delle priorità, oltre che una ridotta mobilità pendolare che “consuma” negli spostamenti una gran parte del tempo. All’interno di questa cornice si possono spiegare una maggior attenzione al consumo critico e la propensione ad avere figli. La riattribuzione di significato al capitale sociale famigliare può avvenire, probabilmente, con più facilità in chi gode di buone condizioni materiali e di strumenti concettuali.
Nel rapporto Istat sottolinea la riduzione del flusso migratorio di giovani, tra cui laureati, verso l’estero. Complessivamente però, il saldo è negativo per circa di 260mila giovani, di cui 76mila laureati, “usciti”. Quanto perde il nostro Paese a causa di questo fenomeno?
Perde soprattutto una caratteristica, perché da Paese di produttori che concepisce, progetta, studia e riprogetta, si era trasformato in Paese di consumatori e a forte debito. Una trasformazione che fa a pugni con la valorizzazione dei giovani e con gli investimento a medio-lungo termine su istruzione e formazione. La fuga di molti nostri giovani, creativi e volenterosi, si spiega con un declino di questa identità originaria fatta di filiera lunga, risparmi, sacrifici, progetti di famiglia e di futuro, anche se certo non dobbiamo dimenticare la mancanza di chance materiali.
La pandemia ha avuto un forte impatto sull’economia del nostro Paese. Che tipo di cambiamento è necessario?
L’impatto sicuramente c’è stato sul modello di consumo delle città, delle località d’arte e di quelle turistiche, e quindi sui servizi del terziario, sul turismo e sullo spettacolo. Con la pandemia si sono ridotto sia i patrimoni privati che le chance di consumo di queste realtà e il cambiamento dovrebbe essere un nuova attitudine a non riutilizzarle come prima – tra negozi di vario genere disseminati ovunque e un’altissima densità dei locali per la ristorazione. Per ricostruire bisognerà muoversi un passo alla volta, quando prima era fin troppo facile avere a brevissimo termine un ritorno dell’investimento. Un altro impatto probabilmente l’hanno subito quelle persone che cercavano di sbarcare il lunario attraverso l’economia di sussistenza non registrata, e il rilancio del welfare è una leva potente per recuperare queste persone.