Il 28 luglio del 1914 con la dichiarazione di guerra dell’Impero Austro-Ungarico alla Serbia ebbe inizio la “Grande Guerra” del 1914-18, un mese esatto dopo il notissimo Attentato di Sarajevo.
Il 28 giugno del 1914, infatti, l’arciduca Francesco Ferdinando, nipote di dell’imperatore Francesco Giuseppe e erede al trono d’Austria e Ungheria, è ucciso a Sarajevo, assieme alla moglie Sophie Chotek, con alcuni colpi di pistola da uno studente nazionalista serbo-bosniaco, Gravilo Princip.
È la scintilla che innesca, secondo tutti i manuali di storia, la conflagrazione della Prima guerra mondiale. Dopo quattro anni di distruzioni, con oltre dieci milioni di vittime, con la fine dei grandi imperi multinazionali e multietnici – quello austro-ungarico, quello ottomano e quello russo – ne conseguirà una nuova configurazione geopolitica della vecchia Europa, connotata da instabilità e conflitti, che precipiteranno nella tragedia immane della Seconda guerra mondiale. Molti storici hanno definito questo periodo come una nuova “Guerra dei trent’anni”.
Il periodo storico
Per quali ragioni diventa data e evento storico decisivo dell’epoca contemporanea un semplice attentato, compiuto per di più in una cittadina periferica e allora certamente priva della notorietà internazionale derivatale dal tragico assedio nel conflitto serbo-bosniaco di fine Novecento?
Nel primo Novecento gli attentati contro regnanti e capi di Stato da parte di anarchici e nazionalisti erano ricorrenti: il 29 luglio del 1900 è ucciso a Monza il re d’Italia Umberto I; nello stesso anno un anarchico polacco aveva ucciso il presidente americano William Mackinley;. nel 1903 è ucciso il re della Serbia, Alessandro I Obrenovic con tutta la sua famiglia, questa volta per una congiura di palazzo. Nel 1908, ancora, a Lisbona è assassinato il re Carlo I assieme al principe ereditario.
L’attentato di Sarajevo diventa, invece, la causa-pretesto dello scoppio di una conflagrazione bellica che investe quasi tutta l’Europa. “Guerra europea”, fu, infatti chiamata dalle cancellerie, prima che si affermasse la nuova pregnante denominazione popolare di “Grande guerra”. Innescò una serie di richieste sempre più minacciose e ultimative, da parte dell’Impero Austro-ungarico nei confronti della Serbia. Si preferì passare subito alla mobilitazione degli eserciti e le ragioni della diplomazia furono sostituite da quelle della guerra, sempre che questa possa mai averne.
La “pace armata”
Era automatico questo precipitare degli eventi? La domanda non è priva di senso, qualora si parta dalla constatazione che la storia, a dispetto del determinismo positivista e provvidenzialismo idealista crociano, è sempre “storia possibile”, mai predeterminata e inevitabile.
Non a caso, per fare solo un esempio, in Italia, l’uccisione di Umberto I, vissuta e presentata dall’attentatore Gaetano Bresci, giovane anarchico, tornato appositamente dagli Stati Uniti, come vendetta per la feroce repressione dei moti popolari del 1898 e, in particolare, per le cannonate del generale Fiorenzo Bava Beccaris contro manifestazioni inermi, con quasi cento vittime solo a Milano. E il giovane re aveva insignito dell’Ordine militare di Savoia l’autore di questa strage. Eppure, questi fatti tragici non aprirono un’ulteriore spirale di tensioni, ma furono sapientemente usati da Giovanni Giolitti per aprire una felice “età” di conquiste democratiche e sociali, alla quale porrà fine proprio l’entrata in guerra dell’Italia nel maggio del 1915.
Herbert A. L. Fisher, nel terzo volume della sua magistrale “Storia d’Europa”, tutto dedicato a “L’esperimento liberale” della cosiddetta “Belle époque”, ha scritto che “il processo ascendente di sviluppo democratico e benessere civile” fu “troncato da un delitto”.
In realtà Leone XIII, il pontefice della Rerum Novarum, la “madre di tutte le encicliche sociali”, aveva previsto questo esito tragico, individuandone le cause profonde. Nel 1894 aveva pubblicato la lettera apostolica, “Praeclara Gratulationis”, significativamente indirizzata ai “principibus populisque universis” (ai governanti e ai popoli tutti), quasi un’anticipazione della giovannea Pacem in Terris rivolta a “tutti gli uomini di buona volontà”. Leone XIII sosteneva che la pace che regnava in Europa dopo la guerra franco-prussiana del 1870, era illusoria, essendo una “pace armata”, una “pace negativa”, in quanto gli Stati erano schierati in alleanze militari contrapposte, erano in campo grandi eserciti in armi, resi possibili dalla leva obbligatoria dei giovani e, soprattutto, la seconda rivoluzione industriale dell’acciaio e della chimica, rendeva possibile la produzione massiccia di nuove armi con inedita capacità di distruzione e di morte. E il potere dell’industria bellica era centrale e dominante nell’economia dei paesi sviluppati.
I protagonisti
Chi era l’autore del “delitto”, responsabile, secondo Fisher dello scoppio della guerra? Gravilo Princip, era uno studente ventenne, membro della società segreta, Giovane Bosnia, legata a gruppi dell’estremismo nazionalista serbo. La vittima, invece, Francesco Ferdinando, coltivava un ambizioso disegno strategico di rilancio del dell’Impero Asburgico, ancora saldamente nelle mani dell’immarcescibile, ultraottantenne, nonno imperatore.
Francesco Ferdinando si proponeva di superare il potere duale, dell’Impero, in vigore dal 1867, costruendo a fianco del polo austriaco e ungherese, un polo slavo, che comprendesse oltre la Boemia, la Slovacchia, la Galizia anche la Slovenia e la Croazia, al fine di battere le mire espansionistiche della Serbia rivolte alla creazione di un vasto Stato degli Slavi del Sud.
Ecco perché allora diventa strategicamente importante la Bosnia Erzegovina, già appartenente all’Impero Ottomano, che, nel 1908, era stata annessa anche formalmente dall’Impero Austro-Ungarico, dopo tre decenni di dominio di fatto. L’annessione suscitò le proteste e le reazioni fortissime della Serbia, ovviamente, ma anche della Russia zarista, da sempre protettrice degli Slavi, Gli stretti rapporti attuali della Serbia con la Russia di Vladimir Putin, anche nel contesto della guerra in corso in Ucraina, si fondano su questa storia di lunga durata.
I colpi di pistola contro l’erede al trono degli Asburgo sono sparati durante una parata militare, provocatoriamente svolta proprio nel giorno della festa nazionale della Serbia, nel corso della quale era state lanciate anche delle bombe. Parafrasando Gabriel Garcia Marquez, si può parlare di una “cronaca di una morte annunciata”.
Gli schieramenti
L’Impero Austro-Ungarico inviò alla Serbia, ritenuta la mandante dell’attentato, un durissimo ultimatum, lesivo non solo del suo noto orgoglio nazionale ma anche della sua sovranità. Il 28 luglio, al suo scadere, dichiarò guerra, forse illudendosi che si sarebbe avuto solo un ennesimo conflitto locale nell’area balcanica, dal quale la Serbia, per l’evidente inferiorità economico-militare, non poteva che uscire sconfitta e mortificata nelle sue aspirazioni di potenza e di centro aggregatore del nazionalismo jugoslavo.
L’Impero Russo di Nicola II si schierò immediatamente con la Serbia e la Germania di Guglielmo II, pur all’inizio titubante, il 1° agosto, dichiarò guerra alla Russia e, due giorni dopo, anche alla Francia, nel timore di essere aggredita alle spalle mentre le sue truppe erano impegnate al confine orientale contro l’esercito russo.
È ormai un lontano ricordo il Patto della Santa Alleanza del Congresso di Vienna e per la Germania non conta neppure molto la solidarietà intertedesca. Il Reich tedesco con tutto il suo grande e moderno potenziale bellico si proponeva di risolvere con la forza il contenzioso con la Francia e l’Inghilterra, affermando una supremazia economica-militare. La guerra coinvolgerà nel tempo gran parte dei paesi europei, l’Impero Ottomano e due paesi extraeuropei: gli Stati Uniti d’America e il Giappone, nonché le risorse materiali e umane dei vasti domini coloniali anglo-francesi; diventerà una guerra mondiale.
L’annuncio di un tramonto
L’attentato di Sarajevo e lo scoppio della guerra dell’estate 1914 possono essere considerati simbolicamente come l’annuncio della fine non solo di secolari grandi dinastie, ma anche di tutto un universo di interessi e di valori che dall’Ottocento aveva trasbordato nel primo decennio del Novecento e che proprio dalla Prima guerra mondiale fu definitivamente travolto.
Ne dà conto “La marcia di Radetzky”, l’opera più nota del grande scrittore ebreo-mitteleuropeo, Joseph Roth, pubblicata nel 1932. Il romanzo di grande fascino, anche per la nostalgia non reazionaria dell’epopea asburgica, si chiude proprio con il racconto degli echi prima lontani e poi sempre più vicini di questi eventi che arrivano in una sperduta cittadina della Galizia, allora estrema periferia dell’Impero austroungarico, oggi regione occidentale dell’infelice Ucraina, coinvolta nuovamente nella tragedia della guerra. Echi che nelle pagine stupende del romanzo di Roth suscitano forti emozioni e, soprattutto, la sensazione di un tramonto.