Da un mese l’attenzione del mondo è rivolta a quanto sta accadendo a Gaza, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre a cui Israele ha risposto con bombardamenti e operazioni militari nella Striscia, dove un milione e mezzo di persone sono sfollate, secondo le Nazioni unite. Ma sul fianco orientale dell’Europa le ostilità cominciate il 24 febbraio 2022 con l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo proseguono. Per capire la situazione del conflitto russo-ucraino, come l’Occidente continuerà a sostenere Volodymyr Zelensky e se la crisi mediorientale, col rischio di un’escalation regionale, può avere un qualche tipo di effetto, Interris.it ha intervistato il professor Giorgio Cella, esperto di geopolitica dell’Europa dell’est e docente dell’Università della Calabria, autore del libro “Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi”.
L’intervista
Professore, qual è la situazione sul campo in Ucraina oggi?
“Siamo di fronte a una guerra di attrito, di erosione e di resilienza. Secondo le aspettative generali – forse un po’ troppo leggere – la controffensiva ucraina avrebbe dovuto svolgersi con più forza e rapidità, ma le difese russe hanno resistito. Così continua la reciproca erosione dei due eserciti sul territorio. Attualmente non si vedono dinamiche definitive che possano mutare le cose in modo drastico. Resta tuttavia sullo sfondo, come in ogni conflitto globale, lo spettro sinistro dell’incidente militare”.
In oltre un anno e mezzo di guerra, i russi hanno raggiunto i loro obiettivi?
“A oggi quattro regioni dell’Ucraina, Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson sono sotto occupazione russa, ma sostenere che abbiano centrato i loro obiettivi sarebbe azzardato alla luce del fatto che un’operazione militare speciale non sarebbe dovuta durare due anni e per via dell’altissimo numero di vittime tra i loro soldati. E’ però anche vero che la Russia, quantomeno i suoi vertici politico-militari, ragiona con criteri autocratici in assenza di un check democratico. Il fine ultimo è il mantenimento di una dimensione imperiale: se riuscisse a mantenere il controllo di queste quattro regioni potrebbe rivenderlo, specie sul piano domestico, come un qualche tipo di vittoria”.
Il presidente Vladimir Putin ha firmato la legge che revoca la ratifica della Russia del Trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari, pur avendo poi specificato il Ministero degli Esteri russo che continueranno a rispettare la moratoria. Che messaggio si vuole mandare all’Occidente?
“L’esercito russo era considerato il secondo al mondo ma ora dopo la campagna in Ucraina questa considerazione è diminuita, anche se resta assai temibile sotto il profilo degli armamenti nucleari. Il fatto che la Russia continui a uscire dai patti sulla riduzione del rischio nucleare è segnale di una generale instabilità. Durante la Guerra fredda la minaccia atomica esisteva per il suo effetto deterrente, c’erano più garanzie, limiti e linee rosse, ora che la Russia ne parli con tanta nonchalance è sintomo di una sicurezza internazionale erosa, di una mancanza sia di fiducia reciproca che di meccanismi internazionali in grado di fermare la violenza bellica. Così, nei dieci punti stilati dalla diplomazia cinese a un anno dallo scoppio della guerra, si consigliava fortemente di non minacciare l’impiego di armi nucleari e di non utilizzarle”.
Il portavoce del presidente russo, Dmitry Peskov, ha detto che le relazioni tra Stati Uniti e Federazione russa sono “sotto zero” e per riallacciare i rapporti dovrebbero maturare alcune condizioni. Come interpretare queste dichiarazioni?
“Paradossalmente, se gli Stati Uniti sono visti come l’avversario principale, per Mosca negoziare direttamente con Washington è una questione di status di potenza, di attore internazionale che come tale viene riconosciuto. L’idea di fondo è infatti quella di tenere negoziati proprio con la superpotenza americana, scavalcando l’Unione europea e, ovviamente, l’Ucraina”.
A ottobre gli Usa avevano sospeso sei miliardi di aiuti all’Ucraina. Qual è oggi il sostegno occidentale a Zelensky?
“L’Occidente ha avuto una grande reazione all’inizio della guerra, ma non è facile coordinare una politica estera comune che coinvolga tutti gli attori europei sul sostegno all’Ucraina. Il 2024 è l’anno delle elezioni per antonomasia, prima le europee poi le presidenziali americane, ma reputo difficile che ci siano dei cambiamenti drastici su questioni strategiche come questa. Nel cinismo insito nella politica internazionale, può essere realistica la volontà di ottenere una rimodulazione del conflitto o di arrivare a una qualche forma di negoziati, ma credo che per ora la Nato continuerà a supportare l’Ucraina nel futuro prossimo, perché se si arrivasse a una pace in netto sfavore di Kiev l’Occidente subirebbe una sconfitta sul piano reputazionale e dei valori”.
L’escalation in Medio Oriente rischia di distogliere le attenzioni occidentali da quello che succede sul fianco orientale d’Europa?
“Per forza di cose, anche dal punto di vista mediatico, sì. Gli Usa e l’Ue sostengono l’Ucraina da un più anno e mezzo e se ci si mette un’altra crisi che presenta i contorni spaventosi di espansione regionale del conflitto è chiaro che gli americani saranno sempre più pressati pure da un punto di vista di mera consumazione delle risorse. Ma una crisi non cancella l’altra”.