Post lockdown e fobie: la sindrome della capanna

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La sindrome della capanna e il non voler uscire di casa: di cosa si tratta? Si tratta di un effetto psicologico legato al coronavirus, un aspetto legato alla salute mentale delle persone che non riescono ad uscire da vortice delle paure. Perché accade questo? Interris.it ne ha parlato con la Professoressa Francesca Baralla, psicologa e ricercatrice presso l’Università degli Studi del Molise.

L’hanno chiamata anche la sindrome del prigioniero, perché?
“La sindrome della capanna, o ‘cabin fever’, non è una diagnosi clinica, ma un modo di dire utilizzato per descrivere una condizione che può presentarsi nelle persone isolate socialmente per un periodo di tempo prolungato a causa di motivi lavorativi, logistici o climatici. Sono considerati associati a questa condizione una costellazione di stati emotivi, che tendono ad essere più intensi in base al tempo trascorso in isolamento, in prevalenza irritabilità, impazienza, rabbia, noia, solitudine e stanchezza, che possono portare a prendere decisioni irrazionali e tradursi in comportamenti di rischio per la vita del singolo o del gruppo, come abbandonare il rifugio in cui ci si trova durante una tempesta di neve, oppure avere reazioni di intolleranza verso i conviventi che si esprimono con rabbia e forte irritabilità, solitamente non presenti, come anche pensieri di suicidio. Nella ‘sindrome del prigioniero’, invece, una persona che si trova in stato di isolamento per prigionia o sequestro, può sperimentare dei vissuti di forte solitudine, irritabilità e rabbia, anche se i motivi alla base dell’isolamento e quindi anche i vissuti associati ed i comportamenti sono diversi”.

É possibile paragonare la sindrome dalla capanna all’agorafobia?
“È possibile affermare che alcuni vissuti emotivi possono essere simili, ma l’agorafobia che è un disturbo classificato all’interno del manuale internazionale dei disturbi psichiatrici (DSM-5) si caratterizza per la presenza di paura improvvisa ed intensa, in mancanza di un pericolo reale. Questa paura intensa ed immotivata può essere accompagnata anche da sintomi fisici molto intensi e da pensieri catastrofici, come la paura di morire o di impazzire, che possono causare nella persona che ne è affetta un disagio prolungato nel tempo che può prevedere l’utilizzo di specifici farmaci”.

Perché in alcuni soggetti si è sviluppata la paura di incontrare persone e quindi la mancanza di voglia di uscire dopo il lockdown?
“Perché è corretto avere paura di tornare alla ‘normalità’ e questo comportamento prudenziale è frutto di una ‘sana paura’ ed è il risultato di una campagna informativa e della progressiva acquisizione di notizie e conoscenze che hanno consentito alle persone di prendere atto dei veri rischi che si corrono durante una pandemia. Come ci ricorda molto bene Jared Diamond in un saggio intitolato ‘Armi, acciaio e malattie’, la principale causa di morte nelle società umane è sempre stata rappresentata dalle malattie infettive a carattere epidemico: la spagnola ha causato 20.000.000 ca. di decessi, contro 8.000.000 ca della prima Guerra Mondiale. Pertanto abbiamo correttamente paura e ci difendiamo da ciò che potrebbe potenzialmente uccidere noi ed i nostri cari”.

Ci si chiede se si è tornati alla normalità o se mai si tornerà alla normalità, ed in tanto quello che si vede in città non è più la vita di prima…può anche questo indurre uno stato d’ansia che invoglia le persone a rimanere in casa?
“Come testimoniato dalla nostra storia evolutiva, siamo programmati per rispondere in maniera adattiva alle difficoltà e a fronteggiare anche le calamità, mettendo in atto dei comportamenti protettivi, come stare al riparo in casa, sacrificando la nostra socialità, perché torneremo a muoverci serenamente quando il pericolo sarà meno forte. Purtroppo, a fronte di un pericolo “invisibile” le nostre reazioni sono molto complesse, perché inevitabilmente si mette in moto il nostro apparato simbolico. Sarebbe insensato e pericoloso pensare che il pericolo è passato in questo momento. Perché non è vero e, cosa più grave, non sappiamo quando passerà. In Italia abbiamo mostrato un comportamento prudenziale e attento, pur sacrificando gli interessi personali e, soprattutto, la nostra socialità, ed i nostri riti, non ultimo quello delle sepolture dei nostri cari. Abbiamo potuto farlo perché abbiamo riconosciuto che era necessario, anche se questo non ci ha risparmiato l’esposizione ad una certa quota di sofferenza”.

Come superare queste paure?
“Le paure si affrontano ascoltandole, riconoscendole e cercando di trovare un modo per affrontarle insieme ad altri, facendo arcobaleni o cantando insieme. Di fatto, abituandoci a stare insieme pur se lontani e manifestando i nostri bisogni e le nostre necessità, senza pensare di poter tenere tutto sotto controllo o negando la realtà. In questo periodo, insieme al Prof. Marchetti, abbiamo svolto un servizio gratuito di consulenza a tutti gli studenti ed il personale dell’Ateneo del Molise e abbiamo potuto toccare con mano il disagio e la difficoltà di molte persone esposte alla sofferenza in solitudine e destabilizzate proprio da quelle misure di protezione che era necessario mettere in atto. Occorre rassicurare le persone sulla normalità delle loro reazioni, legate alla situazione e non a qualcosa che non va in loro e dare parola ed ascolto a queste storie, nonché interpretarle alla luce della situazione complessa e pericolosa che tutti stiamo vivendo. Dobbiamo poter riconoscere le potenzialità del nostro sistema difensivo e non difenderci da esso e, soprattutto, non negare la realtà, perché questo comportamento ci esporrebbe, più di altri, al contagio”.

Tirando le somme di questa quarantena e prendendo una bilancia, sulla salute mentale delle persone, pesano più gli effetti positivi o quelli negativi?
“Il punto centrale è che non sappiamo quanto durerà questa pandemia. Questa condizione ci espone e ci rende consapevoli della nostra fragilità e ci colloca in una condizione di incertezza per noi insopportabile. Altra cosa che dobbiamo considerare è che, in condizione di difficoltà e di stress, noi siamo portati a cercare aiuto e regolazione in altre persone che però, a causa del virus, potrebbero essere anche il vettore unico e privilegiato del contagio. Io credo che attualmente, un po’ come accade da bambini con il gioco del ‘bubusettete’, pur in assenza di certezza che possano realmente proteggerci, stiamo utilizzando le mascherine per abituarci, in una sorta di gioco neurale, a convivere con la paura del contagio, senza rinunciare alla nostra socialità, un elemento fondamentale per riconquistare il nostro equilibrio psichico”.


Rossella Avella: